Farinetti, il prestigiatore del Made in Italy

Il 18 marzo l’opening di Eataly a Milano

C’è un episodio – sconosciuto ai più ma noto agli addetti ai lavori enogastronomici – che illustra bene la genialità di Natale “Oscar” Farinetti. Nel dicembre 2012, alla notizia dell’accordo tra Birra Peroni ed Eataly, legioni di foodies insorsero o cominciarono a dubitare della filosofia del guru di Alba. Ma come, ci ha rotto le scatole con la superiorità della birra artigianale, la genialità di Teo Musso, il rapporto tra chi coltiva e produce sottocasa e adesso vende la Nastro Azzurro alla spina? Passi portarla nel mondo insieme agli spot di dubbio gusto di Valentino Rossi ma servirle nel tempio…La spiegazione ufficiale si ispirava, più che alle teorie di Carlin Petrini, alla speranza di un mondo migliore: «Non voglio più lottare contro le multinazionali ma voglio convincerle a diventare buone, pulite e giuste. E SabMiller (secondo produttore di birra mondiale, per di più di origine sudafricana, ndr) che ha mantenuto, valorizzato e diffuso nel mondo l’identità italiana di Peroni lo è. Sono favorevole a esportare le eccellenze italiane nel mondo e, in questo senso, sono contrario al cosiddetto chilometro zero». La verità? I numeri della birra artigianale restano di super nicchia: il 2% della produzione totale (Birra Peroni è sul 20%), il mitico Baladin (dove Farinetti è anche socio) non supera i 12mila ettolitri di produzione annua contro i tre milioni abbondanti dell’esecrata – dai foodies – Nastro Azzurro e compagnia. Di cosa stavamo parlando? Natale Oscar che deve dar da bere agli assetati sempre e comunque (giustamente guadagnando) vi guarda, sorride e il capitolo è chiuso.

In definitiva, gli anti-farinettiani – obiettivamente in aumento da quando è diventato consulente, sponsor e fornitore di lunch per il neo-premier – si sfogano solo sui blog di settore. Il solo media che a ogni apertura di un nuovo sito cerca di seminare zizzania o trovare il difetto socio-politico-economico è Il Fatto Quotidiano a cui Natale Oscar non si sottrae se c’è da rispondere a domande o precisare punti controversi, uscendone con buonsenso e dando sempre la sensazione al lettore non prevenuto che sono loro dei rompiscatole e che ha ragione lui perché dà lavoro ai giovani e vende cose buone. Per sentirne parlar male, anche off the record, bisogna allora rivolgersi a qualche piccolo produttore che non si è piegato alle logiche di Eataly. Non scorrette, sono quelle scolpite nella pietra del sistema Gdo: magari si aspettava aria nuova in cucina, invece per entrare o fai così o nothing. I prezzi sono alti? Beh, la qualità è indiscussa almeno in Italia. Se entrate in un Eataly straniero, vi capiterà di vedere prodotti che qui sono basici o “commerciali” da una vita. Affari loro, che imparino correttamente l’Italian Sounding e poi apprezzeranno la pasta veramente al top. E quanto vale l’orgoglio di vedere i menu e i cartelli in italiano a New York come a Tokyo, a Istanbul come a Dubai? Non per essere disfattisti, ma non abbiamo molto altro da esibire petto in fuori.

Al di là della capacità imprenditoriale coltivata in 25 anni di Unieuro, Farinetti ha giocato al meglio tre elementi indiscutibili. In primis, la conoscenza della materia: Alba, Slow Food, Carlo Petrini, il Piemonte del vino, i tanti amici esperti sono stati fondamentali nella scelta e nella valida gestione del secondo business della carriera. Senza razzismo, se fosse cresciuto a Gorizia, Melfi o Gela non sarebbe andata così bene. Secondo elemento: la visione a lungo termine. Il vignaiolo Angelo Gaja, maestro di Langa e non solo, ci ha detto un giorno: «Lui vende il progetto, non il prodotto. Ragiona su un “qualcosa” che sarà pronto tra cinque anni e gli credono: giustamente, perché il progetto precedente ha funzionato e la catena prosegue». E qui si arriva al terzo elemento: magari con qualche intoppino (vedi Eataly Milano che apre il 18 marzo dopo un’attesa infinita), ma alla fine le parole diventano fatti. Proprio l’opposto dei nostri politici – ma anche di tanti imprenditori – che si distinguono per la poesia dell’annuncio. Anche qui, un episodio illuminante: nel casino inestricabile dell’Expo 2015, è dalla scorsa estate che Eataly sta lavorando al suo padiglione da 8mila meri quadrati, in posizione super strategica: vi ruoteranno le migliori trattorie d’Italia in quattordici ristoranti fissi, basati sulla «biodiversità delle regioni italiane» come ha sottolineato. Obiettivo: servire (bene) oltre due milioni di visitatori. E intanto quelli furbi litigano ancora sulle vie d’acqua. Bravi.

Farinetti ha infine approfittato del vuoto colossale, totale, delirante sulla difesa dell’agroalimentare tricolore nel mondo. Mette i brividi pensare che ci voleva lui – con tutto il rispetto – per far riflettere seriamente sull’istituzione di un marchio per far riconoscere quello che è italiano. Ma così è. Non a caso, siamo i più contraffatti (e presi in giro) dall’Alaska alla Nuova Zelanda. Natale Oscar ha ragionato anche al contrario: l’unica speranza per il futuro è trasformare la nostra terra nel paradiso mondiale del wine & food, sfruttando insieme l’immenso potenziale artistico e culturale. L’idea di Eataly World a 10 km dal centro di Bologna, con il Fico (Fabbrica Italiana Contadina) e il grande chef Massimo Bottura come direttore artistico, è figlia di questo ragionamento. Applausi a scena aperta, prima di rendersi conto che è è scontato quanto il terzo scudetto della Juve. Ma poi ti vengono in mente gli stand delle Regioni italiane alle fiere del turismo (ingenua domanda: ma ai tempi eroici quanto denaro veniva buttato per esempio alla Bit?) e campagne promozionali così oscene da prenotare immediatamente un volo per Varsavia o Kuala Lumpur. E quindi finisci per dare ancora ragione al signor Eataly. Che è amico di tutti, perché tutti lo vogliono amico.

Qualcuno ha deciso che non solo lo stima ma che ha senso mettersi in società, seriamente, con lui. L’acquisizione recentissima – per 120 milioni di euro – del 20% di Eat Invest (la holding della famiglia Farinetti cui fanno capo i food store Eataly e varie aziende del settore agroalimentare) è un segnale importante. Perché l’operazione – gestita da Tamburi Invetstment Partners – ha portato alla nascita di una newco chiamata ClubItaly dove ci sono Lunelli (Cantine Ferrari), Lavazza, Ferrero, Marzotto, Branca, Angelini e l’armatore D’Amico, il solo a non essere coinvolto nel settore. A chi storce il naso, pensando che solo lui può combinare affari con le Coop di sinistra, le grandi famiglie capitaliste e pure Joe Bastianich – non certo in odore di santità – il geniale albese risponde sereno che i motivi sono stati due. «La futura quotazione in borsa che vorremmo raggiungere entro il 2017 e mettere liquidità in azienda, visto l’importante piano di sviluppo dei prossimi anni». E sottolinea, con l’immancabile sorriso, che «comunque si divertiranno i miei figli, visto che formalmente non posseggo una sola azione di Eat Invest». Di sicuro, in uno strano Paese che insulta Balotelli ogni maledetta domenica e esulta per un suo gol in Nazionale tre giorni dopo o liquida ferocemente ogni premier, salutato inizialmente come persona competente e perbene, sarebbe un vero miracolo veder proseguire il peana (quasi) generale. Forse per questo, Natale Oscar Farinetti ha annunciato che il 24 settembre 2014 – data del suo 60° compleanno – uscirà di scena dal mondo Eataly per occuparsi esclusivamente di green economy. Ne dubitate? Noi no, però la green economy sarà la sua.  

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