Come si era arrabbiato Matteo Renzi quattro mesi fa. «Se fossi in Parlamento – spiegava il giovane sindaco di Firenze – chiederei al mio gruppo di votare per le dimissioni». Era il 19 novembre scorso, sui giornali teneva banco il caso Cancellieri, il ministro della Giustizia finito al centro delle polemiche per il suo interessamento alla vicenda di Giulia Ligresti. Intransigente, Renzi chiedeva un passo indietro. «Sarebbe più logico fare come in tutti i Paesi civili, dimettersi prima del voto di sfiducia». Del resto la titolare della Giustizia «ha perduto l’autorevolezza necessaria a esercitare la funzione di ministro».
Non era indagata la Guardasigilli. Come non è indagato l’ex sottosegretario Antonio Gentile. Esponente del Nuovo Centrodestra al ministero delle Infrastrutture, nei giorni scorsi ha conquistato le prime pagine dei giornali per il presunto tentativo di censura ai danni di un quotidiano locale. Una brutta storia, a cui il governo Renzi ha reagito con lo stesso rigore. Non sapremo mai quali pressioni siano state fatte su Gentile. Intanto, pochi giorni dopo lo scandalo, il sottosegretario ha deciso di dimettersi. «Lo ha fatto per il bene comune e con grande generosità. Per noi viene prima l’Italia», ha confermato orgoglioso il titolare dell’Interno Angelino Alfano. Dal governo e dal presidente del Consiglio Matteo Renzi, che pure lo aveva nominato solo poco tempo prima, nessuna parola. Nessun tentativo di convincere il sottosegretario a rimanere al suo posto.
Oggi il governo scopre di avere una doppia morale. Un doppiopesismo riservato solo a qualche fortunato. Archiviati frettolosamente indignazione e intransigenza, l’esecutivo fa quadrato attorno ai quattro sottosegretari indagati. Al Movimento Cinque Stelle che con un’interrogazione in Aula chiede le dimissioni di Francesca Barracciu, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi puntualizza: «Il governo non chiede dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia, ma eventualmente per motivi di opportunità politica». Il garantismo, prima di tutto.
Al centro della vicenda ci sono quattro rappresentanti del Partito democratico. La sottosegretaria ai Beni Culturali Barracciu, accusata di peculato in un’inchiesta sui rimborsi spese ai consiglieri regionali sardi. I colleghi Umberto Del Basso De Caro (Infrastrutture) e Vito De Filippo (Salute), entrambi indagati per questioni attinenti ai rimborsi destinati ai consiglieri regionali. E il viceministro all’Interno Filippo Bubbico, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio. «Quando l’anno scorso formammo le liste elettorali, alcune persone indagate per gli stessi reati non furono nemmeno candidate» ricorda oggi l’ex presidente del Pd Rosy Bindi.
Il governo tiene il punto. «Abbiamo giurato sulla Costituzione, che contempla il principio fondamentale della presunzione di innocenza», conferma a Montecitorio il ministro Boschi. «L’avviso di garanzia è un atto dovuto a tutela dell’indagato e non una anticipazione della condanna. Il procedimento si trova nella sua fase preliminare (si riferisce alla vicenda giudiziaria di Francesca Barracciu, ndr) e lo stesso sottosegretario ne ha chiesto una accelerazione. All’esito il governo valuterà se suggerire le dimissioni». La risposta della titolare dei Rapporti con il Parlamento non fa una piega, ma lascia un po’ sorpresi. Lo scorso novembre, commentando a Ballarò la vicenda di Anna Maria Cancellieri, la ministra renziana si era espressa in maniera un po’ diversa. «È il gioco la fiducia nei confronti delle istituzioni – le sue parole – Al suo posto mi sarei dimessa».
In discussione non c’è il principio del garantismo. L’esecutivo – e il presidente del Consiglio – sono liberi di agire come meglio credono. In questi casi si risponde solo alla propria coscienza. Si può pretendere un passo indietro da chiunque viene indagato, oppure rispettare la presunzione di innocenza di ciascuno. Sarebbe il caso, però, di scegliere una posizione. Una sola. E mantenerla con coerenza, a prescindere dall’identità degli accusati.