La luna di miele di Renzi alla prova delle riforme

Il cannocchiale

L’insediamento di Renzi cambia molte delle consuetudini comunicative che hanno caratterizzato la classe politica anche quando il distacco dei cittadini si era fatto drammatico. Il discorso dell’attuale Presidente del Consiglio all’apertura del dibattito al Senato, riassume icasticamente le caratteristiche della persona. La capacità (e, se si vuole, il coraggio) di parlare a braccio, la ruvidezza di alcuni passaggi, il modo diretto e in molti casi colloquiale di rivolgersi, segnano una profonda differenza di forma.

La costruzione della squadra di governo, le prime mosse pubbliche del Presidente del Consiglio, l’insistito ritornare su alcune espressioni, quali il “metterci la faccia”, l’assumersi un rischio diretto, ecc. segnalano la consistenza del nuovo modello: Renzi è il messaggio. E sembra esserlo in qualche modo tenendosi sganciato dai riferimenti tradizionali, in primo luogo il partito, che è visto come uno strumento, per quanto indubbiamente rilevante, più che non come il punto di mediazione e costruzione delle proposte politiche e programmatiche. Renzi si pone quindi nella scena come un soggetto che evidenzia la debolezza dei legami sociali e di conseguenza risponde proponendo se stesso, la sua storia, come contenuto.

La stessa formazione della squadra di governo (e prima della segreteria del PD), sta in questo ambito: si tratta di persone completamente nuove, segno di una netta rottura col passato (d’altronde nel solco della “rottamazione”), da più parti accusate di inesperienza. Ma è proprio questa caratteristica a fare la differenza, a segnare il distacco dal passato. E proprio qui sembra stare la difformità rispetto a Berlusconi. Molti hanno sottolineato le somiglianze tra i due, sino ad arrivare a definire Renzi come un nuovo cavaliere. Forse essi hanno contemporaneamente ragione e torto.
Ragione: entrambi propongono se stessi, la loro biografia, il loro corpo come soggetti centrali della storia che si narra. Entrambi sono corpi estranei alla politica (o almeno alla “vecchia” politica, visto che Renzi ha in realtà una pratica politica lunga). Entrambi propongono un rinnovamento, una rivoluzione profonda.
Torto: Berlusconi racconta una storia di “difesa”, impedire ai “comunisti” di arrivare al potere.

Rinverdisce un leit motiv della prima Repubblica: la conventio ad excludendum. Insomma non esce davvero dal passato. E lo fa in apertura della sua avventura politica, quando, nel 1993 all’inaugurazione di un supermercato a Casalecchio di Reno, dichiara che se fosse stato romano avrebbe votato per Fini contro Rutelli. Certo, proporrà anche una visione nuova (l’imprenditore extrapolitico, la rivoluzione liberale), ma lo farà dentro quel contesto. Proprio in questo senso la cosiddetta seconda Repubblica sembra un sostanziale proseguimento della prima. Al contrario Renzi appare, per citare il titolo di un vecchio saggio di Ricolfi, “senza padri né maestri”. Supera le ideologie otto/novecentesche e sembra portare fuori dalla tradizione consolidata (ma sempre più residuale). Lo stesso ingresso del Pd nel Pse, che solo pochi mesi fa sarebbe probabilmente stato oggetto di una lunga e forse aspra discussione, è avvenuto quasi sottotono, come un atto scontato che non ha prodotto che scarse e secondarie opposizioni.

Questa “reductio ad unum”, il concentrarsi sul leader, non è solo il prodotto di una ridislocazione dei fulcri della politica, il cui primato è sempre più ridotto dai poteri esterni, finanziari e sovranazionali. E’ innanzitutto il risultato di un profondo cambiamento nelle forme e nelle strutture della rappresentanza, frutto di un progressivo annebbiarsi delle stratificazioni sociali. Diventa sempre più difficile rappresentare bisogni ed interessi di ceti sociali che progressivamente diventano più sfumati, sfuggenti, difficilmente identificabili. Il che produce una profonda crisi dei corpi intermedi, sempre meno in grado di essere coagulo di bisogni ed interessi, rappresentandoli collettivamente.

Concentrando su di sé la scommessa del nuovo governo, Renzi convoglia su di sé anche i consensi. Non a caso i sondaggi al momento evidenziano un successo elettorale del PD decisamente non in linea con il vasto sostegno che circonda il Presidente del Consiglio. D’altronde Renzi potenzialmente raccoglierebbe un pezzo di consensi che in questo momento sono ancora orientati verso Grillo e il MoVImento 5stelle, di cui condivide almeno in parte l’area semantica e simbolica. Ma nella sostanza Renzi concentra le attese di un paese che si aspetta un cambiamento non solo di contenuto ma anche e forse innanzitutto di forma, in misura molto simile a quella di cui hanno goduto gli esecutivi che si sono succeduti negli ultimi anni.

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Gli ultimi 4 governi muovevano infatti tutti da un livello di attese molto elevato, e sostanzialmente simile. Oggi il governo Renzi parte da un apprezzamento del 63% (percentuale dei voti positivi su chi esprime un giudizio, quindi al netto dei non sa). Il governo Berlusconi 2008 partiva dallo stesso dato, il governo Monti dal 61%, il governo Letta dal 60%. Ma questo apprezzamento si dilapida velocemente: Berlusconi crolla verticalmente nella seconda parte del 2010, con la cacciata di Fini e la diarchia con Tremonti, la parabola di Monti e Letta è ancora più veloce.

Alle grandi attese seguono grandi disillusioni. E questo tanto più avviene nell’elettorato di centrosinistra, storicamente più critico e meno disposto ad affidarsi in toto al leader. D’altronde il Pd ha cambiato in un breve volger d’anni cinque segretari. L’azzardo di Renzi è quindi molto forte: fare velocemente in un paese abituato a tempi dilatati. Ma anche, forse per la prima volta, fare senza rete (con un ruolo residuale del partito, senza l’appoggio delle sfibrate forze intermedie). Oggi, pur mantenendosi alte le attese, come abbiamo visto, si percepisce un certo appannamento. La scelta della definizione della legge elettorale solo per la Camera non soddisfa del tutto, la vicenda dei sottosegretari non è piaciuta, il modo stesso con cui Renzi ha preso il posto di Letta non è stato molto gradito (anche se lo si è velocemente dimenticato). Quindi il Presidente del Consiglio deve non solo essere veloce, ma produrre risultati visibili in tempi brevi. Anche perché ha fatto della battaglia alla burocrazia lenta ed elefantiaca una sua bandiera e non può utilizzare come alibi il dipanarsi delle sue pastoie. Questo tanto più perché il primo test su cui sarà misurato, le elezioni europee, è alle porte.

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