Mercoledì Flavio Briatore ha detto in televisione delle cose parzialmente condivisibili sull’università, ma siccome è un uomo pragmatico e poco riflessivo non ha saputo difenderle coerentemente. Ha detto che il lavoro non è fare ciò che ti piace (innegabile), e che il lavoro perfetto: “non esiste, c’è sempre un compromesso da fare nella vita (idem). “Se non fai niente non troverai mai niente”. Intendeva dire che i giovani devono lottare e non aspettarsi che il lavoro si materializzi, perché non viviamo in un mondo che lo permette (nel 2013 circa 74,5 milioni di giovani disoccupati al di sotto dei 25 anni nel mondo, quasi un milione in più rispetto all’anno precedente). Dopo pochi secondi ha raccontato che nel settore food and beverage delle sue aziende assume solo italiani e che questi italiani sono studenti che si mantengono facendo lavori che consideriamo umili (parzialmente contraddicendosi: o sono debosciati, o sono giovani che si mantengono, delle due l’una). Ha poi detto che per lui l’università è sopravvalutata, e che a un giovane consiglia di andare in Africa e nei paesi emergenti anziché perdere tempo a cercare di laurearsi in economia e commercio o giurisprudenza, settori saturati e socialmente insostenibili lavorativamente.
La settimana scorsa Erich Schmidt, CEO di Google, ha stupito tutti con una critica a chi sostiene che il college è sopravvalutato. Come ha riportato TechCrunch, Schmidt ha detto: “Ci sono alcune persone che dichiarano che l’educazione superiore non è un buon modo di usare il proprio tempo: si sbagliano”, ha detto all’audience della SXSW, una fiera importante di tecnologia. “Se tutto ciò a cui tenete sono i soldi, dovreste andare al college. Se tutto ciò a cui tenete è la cultura e la creatività, dovreste andare al college. Se tutto ciò a cui tenete è divertirvi, dovreste andare al college. Andate al college. Non potrei essere più chiaro di così”.
Due imprenditori, due modi opposti di interpretare l’investimento universitario. Quel che è interessante è che a sostenere una visione performante e irriflessiva è un europeo mentre la fiducia nella cultura come chiave di successo ed emancipazione è di un americano: un mondo alla rovescia? L’idea dii Schmidt ha però a che vedere con l’alto costo dell’università americana. Il bersaglio polemico di Schmidt è Peter Thiel, intellettuale e venture capitalist, investitore di Facebook e sostenitore di startups anziché master ai Stanford.
La retta universitaria è la nuova bolla? Thiel dice di non andare all’università
Il problema americano è che studiare all’università indebita per 30 mila dollari. Peter Thiel, co-fondatore di Paypal, sostiene che siamo in una bolla (e lui se ne intende, ha avuto ragione sia nel 2000 sia per quella immobiliare; pare si rifiutasse di investire in proprietà perché la bolla si era spostata lì. Aveva ragione). La bolla c’è ma non si tratta di internet. Thiel sostiene che il sistema educativo americano si basi su una bolla speculativa in cui famiglie indebitate si accollano debiti pur di mandare all’università i figli, con l’obiettivo di un titolo che genera aspettative irrealistiche sulle reali possibilità occupazionali. Thiel è così convinto che l’università non valga l’investimento che lo scorso anno ha convinto venti teenager e le loro famiglie a lasciare Harvard, Mit e Stanford e creare startup: “Per avere successo, curiosità e determinazione sono più importanti del titolo di studio”. Pare che la scelta abbia pagato per quei venti giovani imprenditori che hanno incassato 34 milioni di dollari di investimenti. Qualcuno crede in loro.
Andare all’università è meglio che non andarci
Secondo uno studio recente del Pew Research, pubblicato l’11 febbraio 2014, il costo economico e sociale di non andare al college è superiore all’andarci. L’analisi sostiene che i millennial laureati tra i 25 e i 32 anni che stanno lavorando full time guadagnano di più—$17,500 di più—di giovani impiegati con un diploma superiore. Il gap era significativamente più basso nelle generazioni precedenti. I millenial laureati tendono a lavorare full time più delle loro controparti (89% vs. 82%) e sono significamente meno disoccupati (3.8% vs. 12.2%). La ricerca mostra anche il declino del diploma superiore. Tutto questo sembra rassicurare gli studenti universitari americani, ha ancora senso indebitarsi per un’istruzione perché non farlo è peggio.
Esistono due gruppi: i giovani 1 e i giovani 2.
Tornando all’opposizione iniziale da cui siamo partiti, Briatore sostiene una visione anti-conformista del ruolo dello studio che è particolarmente apprezzata in Italia da chi detesta la vittimizzazione dei ragazzi che, armati di pessimi slogan e cattive letture, sfilano per le strade opponendosi a qualsiasi provvedimento scolastico. Generalmente i più duri a scagliarsi contro i ventenni sono i trenta-quarantenni, quelli che “hanno conquistato il potere”, secondo la bellacopertina di IL del Sole 24 Ore di questo mese. Parlo della tendenza dei trenta quarantenni a considerare i giovani teenager o post teen come esseri velleitari, ridicoli e desolanti. Curioso che passino così tanto tempo in loro compagnia e che finiscano a prenderci aperitivi nelle zone cool. Ma ha una sua logica. Per capirla bisogna recuperare una pagina di un libro sulla club culture di Sarah Thornton: Dai club ai rave: musica, media e capitale sottoculturale.
Si potrebbe dire che il rifiuto della complicità caratterizzi la cultura giovanile inglese in generale. Avendo allentato i legami con la famiglia d’origine, ma ancora senza un partner fisso e senza aver scelto la propria occupazione, i giovane non sono ancorati al loro posto sociale come chi è più giovane o più vecchio. Investendo sul tempo libero, i giovani possono non farsi ulteriormente inquadrare dal punto di vista sociale. Possono procrastinare ciò che Bourdieu chiama “invecchiamento sociale”, quel “lento lavoro di assuefazione o disinvestimento” che porta le persone ad “aggiustare le loro aspirazioni alle loro possibilità oggettive, ad abbracciare la propria condizione, a diventare quello che sono e ad accontentarsi di ciò che hanno”.
Sarah Thornton ne conclude: “Questa è una ragione per cui la cultura giovanile attrae persone che la giovinezza l’hanno passata da un pezzo”.
I giovani 1 (quarantenni) si sentono giovani e dicono ai giovani 2 (veri giovani) che sono *troppo giovani*. Questo perché i quaranta non hanno ucciso i loro padri (che devono pagare loro le bollette) e devono darsi una seconda possibilità dove hanno già fallito, cioè nel togliersi di dosso i sessantenni e i settantenni che occupano poltrone fino alla morte. Sei-troppo-giovane è uguale a “fatti in là, inesperto, verrà la tua occasione, non ora”.
C’è un solo momento dove i giovani 1 si sentono vecchi saggi, dove percepiscono la loro età: quando c’è da lavorare. Allora a quel punto è tutto un: “i giovani sono dei debosciati”, “i giovani hanno velleità ridicole”, “i giovani dovrebbero fare questo e quello”. Improvvisamente i quarantenni si sentono adulti, si sentono maturi e risolti, e usano la loro autorità sui più giovani, la vera rovina del Paese. (Sarà la sindrome delle serie tv americane dove per anni attori quarantenni hanno interpretato sedicenni usando cappellini e tshirt in spregio al senso del ridicolo; qualcuno ci ha creduto).
Scegliere Schmidt o Briatore?
Se dovessimo scegliere sulla base della simpatia e della coolness diremmo Schmidt. Ma i due non sono altro che portavoci di credenze comuni. Che l’università italiana sia sopravvalutata è vero. I giovani e, ancora peggio, i loro genitori, pensano dagli anni sessanta che un lavoro impiegatizio sia il massimo delle aspettative e un titolo di studio qualsiasi valga sempre la pena. Così facendo siamo fuggiti dalla fabbrica e finiti in una stanza a togliere le rughe da fotografie di matrimoni, per otto ore al giorno (entrambe le condizioni, ne converrete, sono piuttosto alienanti). Ma pensare di lavare i piatti a Londra o servire pizza nei resort di Briatore in Africa è tutto fuorché un modello di futuro idilliaco.
In un bel libro uscito qualche anno fa, Futuro artigiano, si tentava una difficile battaglia culturale, cioè la rivalutazione dell’alto artigianato contrapposto al fordismo come forma gratificante per giovani e meno giovani, sempre tenendo conto un forte investimento politico nella tecnologia. Siamo abituati a svalutare tutto ciò che implichi il lavoro manuale, favorendo il lavoro intellettuale.
Negli Stati Uniti abbiamo visto che per ora la bolla speculativa del debito universario è una ipotesi (verosimile), ma che le statistiche la sconfermano: vale ancora la pena investire in una buona educazione universiaria, almeno secondo Schmidt (a proposito, senza le università non esisterebbe la Valley come promotore di idee, progetti, capitali intellettuali e sociali). E in Italia? L’importante è non considerare la laurea come una garanzia di nulla, né tantomeno demonizzarla. Ogni settore economico offre opportunità differenti, ma l’abilità nell’imparare ad adattarsi e reinventarsi è trasversale. Capire quali sono le proprie possibilità oggettive è ciò che devono fare tutti, a venti, trenta, quarant’anni.
Intervistato dal New York Times, Laszlo Block, il vicepresidente delle risorse umane in Google, riguardo ai metodi di assunzione ha detto che essere laureati non è una condizione imprescindibile (ma avere competenze di matematica e fisica sì). Quel che mi è sembrato cogliere nel segno è che ha sottolineato l’importanza che ha l’abilità nell’ imparare a imparare (abilità cognitiva): «La capacità di comprendere le informazioni e i loro significati al volo. O di combinare e comprendere il significato di parti di informazioni che sono sparse o distanti fra di loro».
Block ha terminato l’intervista dicendo: «ci sono persone che hanno avuto successo nonostante non abbiano avuto un notevole percorso scolastico, e hanno competenze eccezionali. Noi dobbiamo trovarle, queste persone. [Troppe università] non mantengono le aspettative degli studenti. Spesso una persona è costretta a fare una montagna di debiti per poi non imparare le cose più utili che servono nella vita. È come vivere un’adolescenza prolungata».