Tecnicamente parlando, è tutt’altro che scomparso. È sempre lì nel suo ufficio al piano nobile del ministero del Tesoro e chi lavora a Roma, attorno a via XX Settembre, ogni tanto lo si può incontrare in uno dei bar della zona a prendere un panino, perché asciutto com’è, non si abbandona certo a lauti pasti. Ma, una volta stabilito che Carlo Cottarelli esiste ancora ed è in buona salute, resta la domanda di fondo: dov’è finita la spending review?
Il commissario straordinario, venuto da Washington (Fondo monetario internazionale) con un contratto triennale e tante aspettative, aveva promesso di fornire “entro il mese di febbraio” le conclusioni essenziali dei 25 gruppi di lavoro “orizzontali e verticali” creati in collegamento con ministeri e altri centri di spesa, con la collaborazione anche di esperti “a costo zero”, ovvero professori universitari che offrono la loro consulenza per senso civico o amor di patria che dir si voglia. Uomo amabile che non si sottrae a incontri e interviste, Cottarelli ha fatto capire che sa bene cosa fare, dove tagliare e dove riformare ed è pronto ad andare anche più in là rispetto ai tre miliardi annunciati per quest’anno sui 32 che verrebbero risparmiati “a regime”.
Si è fatto un po’ di folklore con le auto blu (se ne parla da quando venne istituita la commissione speciale sulla spesa pubblica un quarto di secolo fa e Piero Giarda lo sa bene), poi s’è parlato di aggredire la voce spese per beni e servizi vera fonte di sprechi, pasticci e clientelismo. Infine, s’è detto che la questione chiave resta il pubblico impiego, la sua mobilità da trasformare in obbligatoria e anche il loro numero; il congelamento di organici e stipendi li ha ridotti di duecentomila unità, una cifra consistente, ma sono ancora tre milioni e 200 mila. È necessario dunque affrontare la questione più spinosa: il perimetro stesso della spesa e dei servizi pubblici. Vasto programma che richiede un governo forte e determinato ad agire.
Adesso il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, nella sua prima intervista a Il Sole 24 Ore, parla di cinque miliardi per quest’anno. Sono ancora pochi di fronte a impegni di spesa a doppia cifra, direbbe Matteo Renzi, dove il doppio s’avvicina terribilmente alla bella cifra di venti miliardi. Basti dire che dovrebbero essere dieci solo per tagliare il cuneo fiscale: 2,5 già impegnati da Saccomanni e 7,5 trovati da Padoan. Auguri!
Una cosa è certa: dopo la strigliata di Olli Rehn e della commissione Ue, non c’è tempo da perdere: per ridurre il rapporto tra debito e prodotto lordo, bisogna agire sia sul numeratore sia sul denominatore, quindi tagliare, tagliare e tagliare ancora la spesa pubblica per rilanciare la domanda interna. Altrimenti il governo sarà costretto a una stangata ancor prima delle elezioni europee a maggio e a quel punto la crescita andrà a farsi benedire. La spending review, insomma, non basterà. Ma intanto, possiamo sapere che cosa ha combinato questa schiera di saggi che s’arrovella ormai da ben sei mesi sul che fare?