Il giorno dopo la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano ha ribaltato la decisione in primo grado sui derivati di Milano, cancellando la responsabilità delle quattro banche coinvolte (JP Morgan, Defpa, UBS e Deutsche Bank) e assolvendo gli istituti da ogni responsabilità passata sui soldi incassati all’origine dei contratti derivati, è necessaria una riflessione sui luoghi comuni sui quali ci intratteniamo, a proposito di banche e finanza. Sembra quasi che la comunicazione mediatica di massa crei miti per sottoporre al ludribrio collettivo banche e finanza, quasi che lucrassero sull’asimmetria informativa, piuttosto che sul loro lavoro.
Il volume dei derivati nel mondo è 10 volte il PIL, quindi i derivati sono troppi. E sono speculativi: carta slegata dall’economia reale. Questa domanda mi insegue da un po’ di giorni, nelle forme più strane e nelle istanze più inattese, un po’ come il cinese che attacca a tradimento l’ispettore Clouseau per metterlo alla prova. E’ cominciato a Torino, dove la domanda mi è stata rivolta dai ragazzi dell’Assemblea di Economia a “Tesoro Parliamone”. Me la ritrovo alla televisione a Presa Diretta, riportata da un parlamentare europeo verde e ripresa da Iacona in studio, per giunta in conversazione con Baranes, di Banca Etica, che era nella tavola rotonda con me a Tesoro Parliamone. Temo che domani in treno qualcuno mi faccia la stessa domanda, che me la facciano quando vado a fare la spesa, o mentre mi servono una birra. E’ una congiura del caso, che può essere spezzata solo obbedendo all’imperativo categorico: parliamone.
Parliamone per capire che è un’affermazione sbagliata, una leggenda metropolitana. Ed è anche un argomento pericoloso perché mentre ti fermi incantato di fronte al rapporto di 10 a 1, che come vedremo non vuol dire nulla, non capisci niente di come e dove nasce veramente la lontananza tra derivati ed economia reale. Faremo un esempio di un modo sano di utilizzare i derivati, che genera un rapporto tra derivati e PIL anche più elevato di 10 a 1, e poi un esempio di derivati da “finanza di carta”, in un rapporto che può essere anche inferiore. E speriamo che gli esempi siano utili a chi si scaglia contro la finanza di carta, perché si scaglino veramente contro la carta, e non si spacchino la faccia contro la roccia.
Vediamo con un semplice esempio perché l’argomento è sballato. Assumiamo che per produrre un euro di PIL di impieghino 10 euro di capitale. E supponiamo che questo capitale sia ripartito in 6 euro di capitale proprio e 4 euro di debito. Scegliete di emettere debito a tasso variabile con un limite superiore alla spesa per interessi. Ad esempio, pagate il tasso Euribor con un limite al 6%. Per fare questo, dovete emettere titoli a tasso variabile, e trovare una banca che vi venda il derivato: questa garanzia contro il rialzo dei tassi chiamata “cap”. La banca quindi vi vende un derivato di tasso per un valore di 4 euro. Se la banca non è specializzata in derivati, o se non le conviene esserlo, la banca ricomprerà lo stesso derivato da una terza parte, specializzata in derivati: in gergo, si chiama un’operazione “back to back”.
E questi sono altri 4 euro che aggiunti ai 4 euro iniziali fanno 8. Se poi l’investitore che si compra il titolo a tasso variabile non se la sente di prendere il rischio dell’impresa, potrà assicurarsi contro il rischio di insolvenza dell’impresa, comprando derivati di credito (ad esempio, CDS). E saranno altri 4 euro di CDS che portano il volume dei derivati a 12. E potremmo continuare: potremmo pensare che chi investe nel titolo a tasso variabile si compra derivati per garantirsi contro un ribasso dei tassi, o contro un ribasso dello spread, e così via. Insomma, sembra che un rapporto di 10 a 1 tra derivati e PIL sia addirittura basso, rispetto alle necessità di gestione del rischio che emergono anche solo da un’iniziativa industriale.
Riflettete ora sul caso che abbiamo appena descritto. Non vi sembra un esempio virtuoso? Dove sono gli speculatori e i filibustieri? In fondo, l’investimento è redditizio: il capitale rende il 10%! L’ammontare di debito vi sembra eccessivo? Una quota di 40% di debito non sembra proprio un esempio da sagra della leva finanziaria. E infine, la scelta di emettere debito a tasso variabile con un limite superiore è la più equilibrata a disposizione. Questo punto forse merita un approfondimento. Le scelte più semplici, tasso fisso o tasso variabile, quelle che per il senso popolare sono le meno rischiose, in realtà sono le più estreme e le più rischiose per un’azienda.
L’indebitamento a tasso fisso espone l’azienda all’aumento del valore del debito in bilancio se i tassi scendono. L’indebitamento a tasso variabile espone l’azienda all’aumento delle spese per interessi se i tassi salgono. Il tasso variabile con derivati, cioè con un limite superiore alla spesa per interessi, è quindi la scelta più equilibrata e efficace. Chi conosce le basi dei prodotti derivati vi può spiegare che è come se aveste ripartito il debito in una parte a tasso variabile e una parte a tasso fisso, e assunto un manager per modificare la quota a tasso fisso aumentandola al crescere del costo dell’indebitamento a tasso variabile. In conclusione, abbiamo mostrato che in un’economia virtuosa di scelte virtuose l’ammontare di derivati potrebbe superare agevolmente il rapporto 10 a 1. Nonostante questo rapporto, l’economia di carta è tagliata su misura dell’economia reale.
E vediamo ora un esempio di utilizzo dei contratti derivati che invece allontana l’economia di carta dall’economia reale. Lavoriamo sempre con la nostra azienda, che produce 1 euro di PIL con 10 euro di capitale, e che finanza il capitale con 6 euro di mezzi proprie 4 di debito. Stavolta il debito è a tasso variabile, senza nessun contratto derivato. Il debito viene venduto sul mercato, e l’azienda promette tanto bene che c’è eccesso di domanda. L’azienda emette 4 euro di titoli, ma la domanda è di 6.
Ecco il terreno fertile per i derivati dell’industria di carta. Se i clienti chiedono 2 euro in più di titoli della nostra impresa, qualcuno li potrà costruire con i prodotti derivati. Niente di più semplice: si costruisce un veicolo che emette titoli di carta e che contestualmente vende protezione, cioè vende garanzia contro il default dell’azienda. Senza entrare nei dettagli tecnici, si tratta della costruzione sintetica di un titolo di debito come quelli che l’azienda ha emesso, all’insaputa dell’azienda stessa. Per fare un parallelo con il mercato dei CD o delle borse firmate, si tratta di un mercato di titoli “taroccati”, che sono uguali a quelli originali, emessi dall’azienda.
Pensate ora all’economia che abbiamo disegnato, e confrontatela con quella precedente. Questa economia ha una bassa intensità dei derivati. Bastano i 2 euro per ogni euro di PIL. Ma questi 2 euro non sono impegnati in nessuna attività di copertura del rischio, ma nella costruzione dei titoli taroccati. Non c’è nessuna attività di gestione del rischio, in questo esempio di economia. Il progetto imprenditoriale dell’azienda cresce sotto la spada di Damocle di un aumento dei tassi che lo può spazzare via semplicemente rendendo insostenibile l’onere del pagamento degli interessi.
In questa economia c’è troppo rischio, e non ci sono abbastanza derivati. Anzi, i derivati sono utilizzati per creare artificiosamente attività finanziarie. I problemi generati da questa attività di taroccamento delle attività finanziarie sono facilmente intuibili. Il primo: dei fondi vengono impiegati in un investimento che non finanzia nessuna attività di tipo reale. Il secondo: i fondi impiegati in questo investimento sono sottratti alla domanda di risparmio che viene da altri progetti imprenditoriali destinati all’economia reale. Il terzo effetto è meno intuitivo, e meno studiato. L’eccesso di domanda di titoli dell’azienda non si scarica sul prezzo, ma viene attutita dall’offerta di titoli taroccati, e quindi l’azienda paga il proprio debito più di quanto lo pagherebbe se questi titoli sintetici non fossero in circolazione.
Abbiamo così descritto l’economia di carta, che molti in politica, nel giornalismo, e persino nell’accademia deplorano, ma che nessuno di loro conosce veramente, e che nessuno di loro sa descrivere. E allora via a politica, giornalismo e saggistica da Don Chichotte contro i mulini a vento dell’avidità, della cattiva coscienza, dell’uomo di Hobbes, del pessimismo sulla natura umana (rigorosamente riferito e limitato agli altri). Ci facciamo insieme un coro greco, e ne traiamo la catarsi: colpa della finanza, colpa delle banche. E il risultato di queste lamentazioni è che non abbiamo ancora una misura di quanto sia vasta questa economia di carta, e di quanta carta possa essere tagliata, prima che il taglio arrivi alla carne e al sangue dell’economia reale. E, fuori di metafora, oggi senza la conoscenza vera dei meccanismi della finanza, non ci può essere politica industriale efficiente. Una sola cosa è chiara: il rapporto tra volume di derivati e PIL non c’entra un bel nulla.
Resta una domanda conclusiva, che ci rimanda al caso di Milano e, paradossalmente, riguarda più il giornalismo che la finanza. La notizia di Milano è che le banche nel 2005, all’origine dei derivati, si sono appropriate di 88 milioni, e che alla chiusura hanno preteso 63 milioni di cosiddetti “costi di finanziamento” (funding cost). La notizia è fatta di due numeri certi, ma solo il primo ha l’onore della stampa. Solo qui su Linkiesta abbiamo denunciato, il giorno della sentenza di primo grado contraria alle banche, che le banche in realtà avevano vinto, e avevano vinto 63 milioni. E avevamo messo in guardia sul fatto che mentre gli 88 milioni sono storia, i 63 milioni sono cronaca.
La cronaca della notizia di Milano è che c’è una tendenza in atto: oggi le banche guadagnano sulla chiusura dei derivati, contando sia sull’oblio dei guadagni che hanno fatto all’origine, sia sull’eccesso di attenzione, come è successo a Milano. Ti parlo degli 88 milioni perché tu non veda i 63. Qui su Linkiesta abbiamo denunciato anche questo. Abbiamo detto che la bocciatura degli emendamenti all’articolo della legge di stabilità che richiedevano trasparenza nella chiusura e nella ristrutturazione dei contratti derivati lasciavano campo libero alle banche, ma non è stata una notizia. Ecco la domanda per gli amici giornalisti: la notizia deve arrivare sempre dopo che si è verificato un misfatto? O sono ammesse notizie, per così dire “preventive”, che impediscono il fatto? Intanto, la vicenda di Milano ci consegna un caso di studio prezioso per tutti: un caso di cattiva finanza, di cattiva pubblica amministrazione, di cattiva informazione.