Telecom Italia, Rcs, Tassara, Sorgenia. Non sono soltanto i creditori troppo grandi per fallire a deprezzare i titoli delle banche di sistema. Oltre al rischio Paese – elemento al di fuori del controllo degli istituti di credito – è il business tradizionale ciò che non convince gli investitori istituzionali. In altri termini, il valore degli attivi dichiarato in bilancio. La doppietta del colosso ameriano Blackrock – divenuto primo azionista di Unicredit al 5,24% dopo essere salito a fine febbraio al 5% di Intesa Sanpaolo – va letta in un’ottica da fondo di private equity, ovvero con un investimento cospicuo ma limitato nel tempo per scommettere sul rialzo dei corsi azionari che seguirà alla ripresa timidamente affacciatasi nel quarto trimestre del 2013.
Due sono gli indicatori per capire quanta polvere è stata nascosta sotto il tappeto delle banche, sperando nel miglioramento del ciclo economico: l’avviamento e i crediti dubbi (non performing loans, Npl). Due macigni che influiscono sulla capacità di dare soddisfazioni agli azionisti ripagandoli della fiducia con il dividendo, argomento delicato da quando Banca d’Italia ha imposto l’aumento del tasso di copertura sugli Npl. Le regole di Basilea e gli accantonamenti assorbono capitale, e se il business non gira l’unica leva possibile è diminuire questi ultimi per non far arrabbiare i propri soci, che in tanti casi sono le medesime Fondazioni che poi erogano finanziamenti e prebende.
L’emblema è Unicredit, a cui la pulizia di bilancio è costata 15 miliardi di perdite nel 2013 dopo i 10,6 miliardi di svalutazioni lorde del 2011. Nella presentazione del piano al 2017 c’è una slide (vedi sopra), riportata dal blog Linkerbiz, in cui Piazza Gae Aulenti evidenzia come il livello di accantonamenti abbia raggiunto nel 2013 la media europea. Non solo. Gli accantonamenti sui crediti performing sono saliti dallo 0,6% all’1,1 per cento: ciò significa che persino le esposizioni in bonis presentano un certo grado d’incertezza. Meglio dunque preparare il paracadute in vista del comprehensive assessment della Bce, appena cominiciato con l’asset quality review prodromica agli stress test. Stesso discorso per Intesa Sanpaolo: allo scorso settembre Ca de’ Sass ha alzato a 79 punti base – rispetto ai 77 di settembre 2012 – il tasso di copertura sui crediti in bonis, aumentando la riserva di 25 milioni nel terzo trimestre dell’anno scorso, a quota 2,4 miliardi.
Basterà? Non c’è da stare tranquilli: i dati diffusi ieri dall’Abi, l’associazione bancaria italiana, evidenziano una crescita delle sofferenze a 160,5 miliardi, con un’incidenza sugli impieghi dell’8,4%, livello più alto da aprile 1999 e un vertiginoso aumento di 34,3 miliardi su gennaio 2013 (+27%), e di 60,2 miliardi su gennaio 2012. Sebbene le pulizie di primavera abbiano «migliorato la salute del sistema creditizio in un momento in cui il contesto operativo si sta stabilizzando», ha scritto l’agenzia di rating Fitch in una nota, «resta da vedere se saranno necessari altri sforzi». Gentilezze diplomatiche a parte, il repulisti potrebbe durare a lungo. A suggerirlo una spia che dovrebbe lampeggiare insistentemente nella sala macchine degli istituti: il 13% del flusso di nuove sofferenze (dati 2012) deriva da posizioni precedentemente classificate in bonis. Delle due l’una: o i banchieri hanno bisogno di un paio d’occhiali nuovi o hanno preferito non guardare fino a quando hanno potuto.
Il risultato, come dimostra l’infografica qui sopra, è che un istituto iberico di medie dimensioni come Bankinter sul mercato viene scambiato a 1,5 volte il suo valore di libro, mentre i giganti Intesa e Unicredit solo a 0,7 volte. Dunque il mercato considera che la storia raccontata dagli istituti al mercato sulla qualità degli attivi sia per così dire romanzata. Proprio per questo, gli istituti costano poco e i fondi americani sarebbero pronti a entrare nel loro azionariato alla prima occasione buona. A cominciare da Pioneer e Fineco, papabili spin off di Unicredit in odor di quotazione.
Il tema vero però rimane la bad bank, impensabile senza una garanzia pubblica sulle sofferenze, magari tramite la Cassa depositi e prestiti. Come ripetono sottovoce da mesi advisor e banchieri d’investimento, che la cessione di crediti non performing si realizzi trasformandoli in equity o meno, tutto si gioca sul prezzo. Per questo l’interessamento del fondo KKR sui crediti dubbi di Intesa e Unicredit si è scontrato, a quanto si sussurra, con la ritrosia delle banche ad accettare scostamenti significativi dal valore nominale delle esposizioni, per non essere costrette ad aumentare gli accantonamenti che bruciano capitale prezioso da conteggiare ai fini di Basilea.
«Se gli istituti dovessero iscrivere a bilancio le esposizioni asset based, come l’immobiliare, al valore di mercato il loro patrimonio netto diventerebbe immediatamente negativo», dice a Linkiesta un advisor specializzato in ristrutturazioni. La soluzione, per ora, è stata “fare come in Giappone”, ovvero aspettare che passi la buriana – mantenendo chiusi i rubinetti del credito – sperando che l’aumento dell’inflazione alleggerisca il peso dei debiti. Una scorciatoia possibile anche grazie alla mole di prestiti concessi a revoca, senza cioè covenant waiver (obiettivi per l’azienda in termini di performance, ndr) rinegoziabili trimestralmente – che fanno emergere le difficoltà – ma con la sola clausola di restituzione immediata. Crediti che saranno esaminati dagli ispettori della Bce – 26 per Intesa, 25 per Unicredit, 16 per Mps e Banco Popolare, 14 per Ubi e Mediobanca, 13 per Carige, 12 per la Popolare di Milano – sbarcati in Italia da qualche settimana.
Dal canto loro, le società di consulenza che fino a una decina d’anni fa suggerivano di sfruttare la leva del commerciale ora consigliano il repricing dei crediti esistenti e lo sviluppo all’estero, leva evidente nel piano industriale di Mediobanca e, con ogni probabilità in quello di Intesa Sanpaolo, che sarà presentato tra una settimana. Il cambiamento del paradigma, evidenziato nel Financial Outlook 2012-2015 dell’Abi, prevede che «Nel medio periodo la crescita degli impieghi dovrà essere inferiore alla raccolta dei residenti». Si potrebbe titolare: 2014, fuga dalle imprese. Non a caso il governo ha proposto lo sblocco totale dei 68 miliardi di crediti delle imprese nei confronti della Pa entro giugno. Se i minibond sono ancora poco battuti tanto per il loro costo in termini di rendimento da garantire agli investitori quanto per la poca voglia degli imprenditori di certificare i loro libri contabili, l’unica via possibile rimane attingere alle tasche del solito Pantaolone.