LONDRA – Di necessità virtù, dice il proverbio. Banca Ifis, istituto veneto specializzato nel factoring e nei crediti difficilmente recuperabili, deve ringraziare la crisi dei subprime. È proprio nell’agosto del 2007, anno zero della crisi, quando Bnp Paribas congela tre fondi specializzati in cartolarizzazioni legate ai mutui americani, che la banca presieduta da Sebastien Egon Von Furstenberg decide di scommettere sul retail, diventando un piccolo caso di studio del made in Italy bancario. Giovanni Bossi, amministratore delegato di Ifis e socio al 3,41%, ricorda così quel periodo: «Il mio tesoriere era in ansia perché si cominciavano a vedere brutti segnali sull’interbancario, e noi non avevamo che quel canale per finanziarci. Abbiamo immediatamente chiesto a Bankitalia le autorizzazioni per raccogliere denaro dalla clientela». «Il nostro obiettivo era poter disporre di uno strumento per la raccolta online», continua Bossi, « Per il primo periodo il web e i forum finanziari ci sono serviti per percepire e capire le esigenze dei risparmiatori, seguendo le conversazioni tra questi ultimi e è gli esperti del settore. Un approccio informale che abbiamo deciso di mantenere».
I bilanci e la Borsa dimostrano che la mossa è stata azzeccata. Ifis è uno dei rarissimi titoli bancari che ha segnato una performance positiva negli ultimi dieci anni: +88% circa a 15,39 euro (+130% da un anno a questa parte). L’anno scorso è stato distribuito un dividendo da 57 centesimi, dopo la dieta del 2011 che ha interrotto un crescendo costante. Nel 2013 l’utile netto è balzato a 84 milioni (+8,5% sul 2012) con margine d’intermediazione in crescita a 264,2 milioni (+7,9%) e un Roe che sfiora il 25% e piace agli analisti. Risultati trainati dai crediti commerciali e dall’azzardo sui circa 8 miliardi di bond italiani acquistati all’apice della crisi nell’estate del 2011 (la sigla G&S sta per Governance e servizi, la divisione che ha in pancia i Btp, vedi tabella qui sotto) e dall’arbitraggio sui 500 milioni presi in prestito dalla Bce, che Bossi per il momento non ha intenzione di restituire.
Ora la sfida è consolidare. Se a fine 2013 i margini derivavano per il 50% dal factoring e per il 9% dai crediti dubbi (Npl), l’obiettivo per il 2016 è l’aumento del peso di questi ultimi al 24 per cento. Tant’è che il contributo alla crescita organica annua sarà trainato dalle commissioni sul segmento Pmi (margini a +10% l’anno) e distressed retail loans (Drl), leggi sofferenze e incagli (+40%). Il mercato c’è, come dimostrano le pulizie di primavera che hanno affossato rispettivamente di 10 e 4,5 miliardi il 2013 di Unicredit e Intesa Sanpaolo: «Oggi noi stiamo comprando Npl originati nel 2008 e dintorni», dice Bossi con un sorriso. D’altronde i cantieri delle bad bank italiane – e l’investimento di Blackrock in Unicredit, Intesa, Mps e Banco Popolare – fanno pensare che i libri degli istituti raccontino tuttora una minima parte della storia.
Fronte retail, non potendo – causa tassi bassi Bce – offrire il 5% di rendimento sul conto vincolato Rendimax, come all’esordio nel 2009, la leva scelta da Ifis per aumentare le quote di mercato è investire in tecnologia. La raccolta derivante da Rendimax ha toccato i 3,8 miliardi nel 2013, +25% sul 2012, ma per rimanere in doppia cifra – il rendimento è sostanzialmente agganciato al Btp, per non bruciare capitale – l’istituto di Mestre ha deciso di puntare forte sui social network.
Se su Facebook Banca Ifis ha 4.716 fan, lontano dai 254mila di Unicredit e dei 41mila di Intesa, con i suoi 1.602 follower su Twitter si piazza al terzo posto dopo Monte dei Paschi e Unicredit. È qui che si gioca la battaglia culturale di Bossi, che osserva: «Per noi i social sono tanto un canale di comunicazione e marketing quanto uno strumento di customer care». La differenza con le altre banche sta tutta qui. E Bossi, in proposito, ha una teoria precisa, il “teorema dello sportello”: «Il freno all’informatizzazione delle banche», nota, «purtroppo sono i posti di lavoro da preservare». «Non avendo sportelli siamo fortunati, perché non dobbiamo mantenere un luogo fisico dove la clientela non vuole più recarsi». Il problema, per Bossi, è che «l’organizzazione verticale basata sugli sportelli pesa sulla suddivisione dei compiti interna alla banca e sull’efficacia del messaggio che dal top management arriva ai livelli intermedi e infine ai dipendenti, e da questi ai clienti». L’esperimento che Bossi e i suoi stanno conducendo, invece, punta sui social «per dare una risposta al cliente – penso soprattutto alle Pmi e alle microimprese – nel più breve tempo possibile. Oggi siamo sui tre giorni, l’obiettivo è arrivare a 24 ore».
Stando al test empirico condotto da chi scrive sul blog Credi Impresa Futuro, i tempi di reazione scrivendo su Whatsapp si sono assestati sui due minuti. Certo, avere solo 548 dipendenti aiuta a rendere orizzontale la comunicazione, che era e rimarrà una funzione interna, a differenza di molte banche. E nonostante la presenza in consiglio d’amministrazione e tra gli azionisti di un peso massimo come Marina Salamon, presidente di Doxa, campagne come il flash mob alla stazione di Venezia Santa Lucia per il lancio di Contomax – per riprodurne la grafica, scelta attraverso un concorso – sono farina del loro sacco.
Dai bilanci è arduo scorporare la spesa per le infrastrutture tecnologiche delle banche. Tuttavia, per Ifis l’esborso dovuto all’acquisto di beni e servizi è salito del 16,7% a 16,4 milioni, mentre dei 6,4 milioni (+11,9%) di immobilizzazioni immateriali, 5,5 sono riferiti al software. «L’industria bancaria ha un’infrastruttura informatica complessa e datata, spesso è complicata perché è cresciuta attraverso fusioni e acquisizioni. Rimuoverla e ricostruirlasarebbe una mossa più intelligente rispetto a fondere insieme i vari pezzi in un’unica architettura» ha detto all’Evening Standard Andrew Bailey, vicepresidente della Bank of England e responsabile della vigilanza prudenziale. «Le banche sono fondamentalmente dei giganti tecnologici e al momento i loro sistemi operativi sono arcaici», ribadisce al quotidiano Richard McCarthy, responsabile delle banche inglesi per la società di consulenza Kpmg. I big italiani lo hanno capito: Intesa prevede di investire 5 miliardi nello sviluppo dell’Ict al 2017 mentre Unicredit un miliardo da qui al 2018. L’imperativo è ridurre il cosiddetto cost/income, il rapporto tra i costi operativi e il margine d’intermediazione. Quello di Banca Ifis è passato in un anno dal 27,9 al 28,9%, Unicredit mira a ridurlo dal 72 al 56% nei prossimi quattro anni, mentre Intesa dal 51,3 al 46,1% da qui al 2018. Per farlo i social network possono aiutare, a patto di saperli usare.