Alla fine degli anni ’60 venne scoperto un enzima in grado di rompere il Dna esattamente dove si vuole, con estrema precisione, che permetteva di tagliare e poi ricucire il Dna stesso a piacimento. Nacque la tecnica del Dna ricombinante e con essa i primi dubbi sul rischio di rilasciare nell’ambiente organismi geneticamente modificati, e poi sulla possibilità di modificare il corredo genetico degli esseri viventi e dell’uomo. In quegli anni, soprattutto in America, la società iniziava a prendere coscienza degli straordinari progressi fatti nel campo della scienza e della medicina e iniziava a interrogarsi su nuove questioni etiche legate a questi cambiamenti. Aborto, procreazione assistita, eutanasia, ingegneria genetica e così via, diventarono questioni sempre più incalzanti, tanto da portare alla nascita dei primi centri finalizzati allo studio dei problemi etici sollevati da queste tematiche. Nasceva in sostanza la bioetica e diventava pressante anche il bisogno dei cittadini di prendere parte a discussioni e decisioni che li riguardano sempre più da vicino. L’ultima parola su scienza, tecnica e ambiente non spettava più solo agli esperti, ma all’intera società.
Come fare per fornire ai cittadini gli strumenti necessari per partecipare attivamente al dibattito scientifico? Secondo quanto osserva Matthew C. Nisbet, analista della comunicazione della scienza, la sensibilizzazione dei cittadini a partecipare alle decisioni collettive non deve avvenire tramite una semplice alfabetizzazione scientifica – che ha un ruolo limitato nel plasmare le percezioni delle decisioni da prendere – ma attraverso il dialogo, e iniziative di consultazione come forum, conferenze e altre iniziative pubbliche, attuate dalle organizzazioni scientifiche. In questo contesto si inserisce molto bene la recente iniziativa “Bioeticadeliberativa”, promossa dall’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo), la Scuola Europea di Medicina Molecolare del campus Ifom-Ieo campus, l’Ospedale San Raffaele e Università degli Studi di Milano: «Uno strumento di consultazione online (ospitata dal sito scienzainrete), per la partecipazione alle scelte pubbliche che riguardano le questioni etiche poste dalla medicina e dalla biologia». Uno spazio aperto per la discussione informata su temi di interesse generale con l’idea e la speranza che diventi uno strumento di riferimento per la partecipazione dal basso.
Giuseppe Schiavone, studente PhD dell’unità di Biomedical Humanities al dipartimento di Oncologia sperimentale dello Ieo, e uno degli sviluppatori di questo progetto, racconta a Linkiesta che il primo obiettivo di questo esperimento è «analizzare il disaccordo morale che nasce da questioni biomediche e biotecnologiche in società democratiche. Il caso più eclatante è Stamina, dal quale siamo partiti per sostenere che la sfera pubblica, almeno in Italia, fa fatica a gestire questo genere di disaccordo in maniera ordinata e proficua. L’idea quindi è creare delle istituzioni democratiche, che facciano uso delle tecnologie oggi disponibili, e istruiscano in maniera ordinata il dibattito, dando a tutti gli strumenti per essere informati e per governare la questione dal punto di vista argomentativo. Attraverso la piattaforma mettiamo a disposizione sia i contenuti scientifici informativi, sia uno spazio dove discutere e “allenarsi” alla retorica».
Aborto, fine vita, donazione organi, neuro-potenziamento, cliniche psichiatriche, sono alcuni esempi dei temi che l’utente, una volta registrato nella piattaforma, può selezionare come preferito, suggerendo il prossimo argomento che gli piacerebbe venisse trattato. O in alternativa può lui stesso suggerire un argomento che manca e ritiene debba essere trattato. Il primo tema di consultazione sarà quello della commercializzazione dei test genetici. Gli utenti che si iscrivono riceveranno una breve spiegazione su cosa sono questi test e gli verrà chiesto se sono d’accordo o meno alla commercializzazione dei test genetici di suscettibilità al consumatore senza l’intermediazione di professionisti sanitari. La stessa domanda verrà riproposta alla fine del processo, dopo che l’utente avrà avuto accesso a tutta una serie di materiali informativi. In questa prima fase sperimentale gli utenti saranno divisi in gruppi: uno avrà accesso a materiale intoccabile, mentre gli altri gruppi a una sorta di Wiki editabile dagli stessi partecipanti. A un gruppo verrà anche chiesto di costruire un report contenenti raccomandazioni da mandare a un decisore politico. «L’obiettivo di questa prima fase è sia valutare se questo processo di documentazione e discussione serve a far riflettere e cambiare idea al partecipante, sia capire come migliorare la piattaforma, le strategie di reclutamento e individuare eventuali criticità. Se troviamo dei fondi per continuare, l’idea è quella di lasciare la piattaforma online, come fosse una sorta di comitato bioetico permanente nel quale chiunque può partecipare dal basso alla discussione». Previa documentazione e conoscenza dell’argomento, senza esporre il proprio punto di vista sula base di preconcetti individuali che si instaurano in ciascun individuo in base alle diverse esperienze e al contesto socio-culturale in cui cresce.
La commercializzazione dei test genetici sarà il primo argomento trattato nella piattaforma. Un problema molto esteso soprattutto negli Usa ma che inizia ad arrivare anche in Italia, grazie soprattutto alla riduzione dei costi che ha permesso praticamente a chiunque di accedere al proprio Dna in pochi giorni. Il primo sequenziamento di un genoma umano iniziò nel 1990 e si concluse nel 2003 con un costo di 2,7 miliardi dollari. Oggi invece un test per sequenziare l’intero genoma costa appena 1000 dollari e la procedura richiede pochi giorni. I test oggi disponibili sono tantissimi e vanno da quelli di suscettibilità a patologie in tutto o in parte geneticamente determinate, a quelli ancestrali che permettono di scoprire chi erano i propri antenati o il gruppo etnico di provenienza.
«Dal punto di vista scientifico niente da dire – spiega Giuseppe Novelli, Rettore dell’Università Tor Vergata e genetista, durante la presentazione della piattaforma bioeticadeliberativa tenutasi a Milano lo scorso 26 marzo – i test genetici hanno permesso di scoprire malattie rare, prevenirne alcune e in certi casi curarle. Il problema è interpretare correttamente i dati una volta acquisiti. Il test da solo non basta, ma bisogna considerare tutta una serie di altri fattori, come per esempio l’ambiente. Un collega biologo che fece il test qualche anno fa, risultò avere un rischio molto elevato per diverse patologie. In seguito fece ulteriori analisi su se stesso e la sua famiglia, prendendo in considerazione altre variabili, e il rischio emerso dal test scese praticamente a zero». «Il problema non è tanto interpretare il dato, tutto sommato di facile accesso. Il punto è piuttosto capire se queste informazioni sono accurate e cosa farne: qual è l’utilità clinica e quali le implicazioni etiche» aggiunge Schiavone.
Una delle preoccupazioni a proposito dell’acquisto di un test per il genoma, è che i risultati potessero causare stress senza l’ausilio di personale qualificato in grado di aiutare gli acquirenti a interpretare i dati. «Ma è un rischio che si è rivelato infondato – continua Schiavone – dal momento che è emerso che i risultati di questi test non hanno alcun impatto comportamentale né le informazioni causano stati d’ansia». D’altra parte però, come spiega anche Novelli, anche se un maggior rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 per esempio, non crea ansia, dall’altra porta quella persona a fare maggiori controlli e visite che hanno un impatto sul nostro sistema sanitario nazionale dal punto di vista economico.
Un altro quesito che iniziano a porsi gli scienziati è se il sequenziamento del genoma debba essere esteso anche al feto. Oggi con un semplice prelievo del sangue della mamma è infatti possibile “leggere” anche il Dna del nascituro. Nonostante gli indubbi vantaggi di questa tecnica prenatale – anche meno invasiva rispetto ad altre come l’amniocentesi – i dubbi etici aperti sono ancora tanti: è giusto che i genitori abbiano accesso ai dati del proprio figlio ancora prima che nasca? A voi l’ardua sentenza.