Chi finanzia il boom dei ristoranti

Chi finanzia il boom dei ristoranti

Si fatica a registrare le aperture, a presenziare ai vernissage, a scriverne le recensioni. Non parliamo di film o spettacoli teatrali ma di locali. Nell’Italia della crisi, degli 80 euro al mese per i meno abbienti, di Equitalia continuano ad aprire ristoranti (grandi, medi e piccoli), enoteche, bistrot, spazi multifunzione dall’alba al tramonto. E ogni occasione pubblica è buona per infilare il wine & food, vedi il Salone del Mobile di Milano dove dall’Ape che distribuiva i panini “firmati” dagli chef sino agli utensili di Oldani per Kartell si è parlato (e mangiato) come si fosse a un convegno di cucina. Già, Milano. Se c’è una città simbolo del movimento è questa: tanti business non si muovono o manifestano cenni di ripresa, quello dei locali è in fibrillazione costante. E nessuno tira indietro la gamba. Anche se i costi per entrare nel “giro”, nelle zone più quotate salgono di mese in mese, con l’avvicinarsi dell’Expo 2015. Ovviamente qualcuno è convinto che dietro il fiume di denaro per la ristorazione, molti rivoli non siano puliti. E citano il continuo sviluppo delle catene di pizzerie, hamburgerie, posti non di alto livello ma “strategici” e con tanto personale. Ci vogliono le prove, certo

Di sicuro, ci sono due aspetti: il primo è che il sistema impone l’entrata di “qualcosa” esterno alla ristorazione , il secondo è che questo limiti sempre di più – come avviene da anni nelle principali città straniere – le possibilità dei “localini” singoli, quelli dei due amici appassionati di cucina. Tanto è vero che non è raro imbattersi in società con otto-dieci soci che gravitano su un solo ristorante oppure in un unico titolare che possiede tre-quattro-cinque posti. Il “qualcosa” è decisamente assortito: finanza pura,  imprenditori edili, griffe della moda, gruppi del settore, catene alberghiere. Capitolo a parte quello delle famiglie cinesi che sostanzialmente si autofinanziano, aprendo un locale dietro l’altro e spesso imparentandosi così da creare una vera massa d’urto senza chiedere a banche o altre realtà esterne.

Le cifre sono importanti: l’ultima, in ordine di tempo, è quella investita dalla Compagnia della Ristorazione (che possiede già due locali storici quali il Taveggia e Al Panino) per far rinascere perfettamente la Drogheria Parini nel Quadrilatero: due milioni e mezzo di euro. Argent de poche di fronte ai 70 milioni spesi da Brian & Barry per il palazzo a San Babila dove ci sono due piani su dieci affittati a Eataly (onnipresente in città) e in cima il ristorante Asola Taglio Sartoriale. Più basso il palazzo Dsquared2, dove sul rooftop si trova Ceresio 7, ristorante-lounge bar di rara spettacolarità: budget definito “illimitato” – da chi ci ha lavorato – per farne il quartier generale dei fratelli Dean e Dan Caten partendo dallo storico palazzo Enel del Ventennio fascista. Non è follia, visto che si tratta di avere un plus di ristorazione all’interno di strutture con un utilizzo base diverso: grande magazzino il primo, sede di rappresentanza il secondo. Non si rischia più di tanto, a differenza di chi – come la famiglia Giambelli, storici costruttori brianzoli – ha speso 150 milioni di euro per Palazzo Parigi, cinque stelle lusso in Corso di Porta Nuova: l’hotel funziona ma Cracco che era la “punta di diamante” per il ristorante gourmet ha chiuso il rapporto in soli tre mesi, con logici danni per la struttura. Ora dovrebbe arrivare Niko Romito, il più recente tre stelle, a prendere il posto del diavolo di Hell’s Kitchen. Chi si ferma, è perduto: mai come adesso.  

Sin qui Milano, capitale ma non sola. A Torino, per esempio, ha riaperto da un mese il Cambio, il ristorante più amato dal conte di Cavour e fondato nel 1757. Michele De Negri, ad della Finde, holding che spazia dall’immobiliare al private equity e al biomedicale della lo ha rilevato dal fallimento, ristrutturando la parte storica in accordo con la Sovrintendenza e rifatto il resto, affidandosi persino a un artista quale Michelangelo Pistoletto per progettare una sala. I rumors locali (e chi ne capisce di operazioni del genere) parlano di una cifra tra i 12 e i 15 milioni di euro: un’enormità per un locale – a ben guardare – ma qui si tratta di legittimo orgoglio piemontese, di passione per un posto di cui si era clienti sin da bambino e di allargare il range delle attività. Per il guadagno, se verrà, bisognerà aspettare almeno un triennio.

Più facile – probabilmente – sarà fare i conti nei rinnovati mercati di Bologna e Firenze, versione popolare (e popolana, almeno nella teoria) della visione farinettiana, di oasi del gusto dove si compra “roba buona” e si mangia a tutte le ore, in versione street food. Sotto le Due Torri, è stata Coop Adriatica a investire sei milioni di euro per ristrutturare il Mercato di Mezzo. E per la cronaca, si annunciano entro fine 2015 altre due nuove grandi strutture in Emilia: il Palatipico a Modena (otto milioni di euro tra Camera di Commercio e dieci consorzi soci) e il colossale Eataly World, alla periferia sempre di Bologna: 100 milioni di euro (45 di un consorzio di privati, 55 del Comune) per dieci milioni di turisti l’anno, secondo quanto dice Natale Oscar Farinetti. A Firenze, il gruppo di soci privati, ha invece messo sul tavolo non meno di cinque milioni di euro, presentando l’opera qualche giorno fa. Al di là di incassare tanti bei eurini, il loro sogno – dicono i maligni – non è tanto di far concorrenza all’Eataly aperto in dicembre. ma di far diventare il Mercato Centrale il quinto “luogo magico” del cibo per il concittadino premier che ne ha dichiarati apertamente quattro. Ce la faranno? 

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