Martedì 8 aprile dovremmo conoscere i contenuti del Documento di economia e finanza (Def), anche se le linee essenziali sono già state illustrate al presidente Giorgio Napolitano. Matteo Renzi ha assicurato che tutto è in ordine, ma non tutto è a posto. Fino all’ultimo non si sapranno i dettagli nei quali si annida il diavolo sempre pronto a ingarbugliare tutti i nodi non sciolti. Azzardare cifre precise, dunque, dura lo spazio di un mattino, ma alcune cose essenziali sono già evidenti. Per esempio, è chiaro che Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia, di giorno tesse la tela e di notte a Bruxelles si divertono a disfarla. Ogni cosa è oggetto di una defatigante trattativa a monte senza avere la garanzia che i parametri sui quali ci si è accordati resisteranno all’offensiva politica domestica. Il tutto sotto l’occhio preoccupato di Mario Draghi il quale, se non riesce a spingere in alto i prezzi, rischia di far saltare i parametri del fiscal compact, e non solo per l’Italia.
Gli esami sono già cominciati e rimettono in discussione l’architrave che regge tutto il resto. La Ue, infatti, contesta la previsione sull’andamento del prodotto interno lordo. Fabrizio Saccomanni aveva ipotizzato un ottimistico 1,1%, Padoan scende realisticamente a 0,8 ma per la commissione europea l’Italia non andrà oltre lo 0,6 per cento. La differenza di appena 0,2 punti sembra un cavillo statistico, però da qui derivano due cose fondamentali: le coperture del taglio all’Irpef sui salari sotto i 25 mila euro (i famosi 80 euro al mese in busta paga) e le condizioni del fiscal compact che vanno rispettate dal prossimo anno. E su questo il negoziato è già cominciato.
Il governo italiano invita a seguire un approccio dinamico, tenendo conto non solo del dare e dell’avere, ma dell’effetto che l’aumento della domanda avrà sulle tre variabili chiave: il Pil, il deficit e il debito pubblico. Aggiungendo anche il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione, si avrà una spinta pari a sette-otto miliardi, cioè mezzo punto di crescita in più. L’impatto maggiore lo vedremo nel 2015, ma è esattamente quando si andranno a definire i parametri per rispettare il patto di bilancio. Et voilà il gioco è fatto.
La commissione europea, però, mette in discussione la premessa dell’equazione e dice: voi finanziate il taglio con risorse future oggi solo sulla carta e date per scontate condizioni che non esistono a cominciare dalla dinamica del Pil. Padoan sostiene che non sarà così, perché ci sono comunque coperture vere. Domani spiegherà quali, ma dovrà essere davvero convincente.
Siamo poi sicuri che il taglio fiscale farà crescere la domanda per consumi? Il governo sostiene che, vista la propensione al risparmio delle famiglie sotto i 25 mila euro (cioè pari al 90%) si trasformeranno in spese e poiché i consumi determinano il 60% del Pil ecco che diventano immediatamente crescita. Lo scorso autunno Fabrizio Saccomanni ed Enrico Giovannini fecero una simulazione con il modello econometrico della Banca d’Italia, ne risultò un impatto minimo, perché quei soldi in più sarebbero serviti soprattutto a pagare i debiti accumulati durante la recessione dalle famiglie a basso reddito, dunque finiranno nelle banche o nell’Agenzia delle entrate. La Ue per il momento la pensa alla stessa maniera.
Pil: le previsioni dei governi nel Def e i dati reali, a confronto
Divergenze ci sono anche sul disavanzo. Il Def calcola che siamo al 2,6%, secondo la Ue siamo al 2,8. Ma in ogni caso il governo ammette che avrà bisogno di sfiorare il 3% (si fissa l’asticella a quota 2,9). Secondo Bruxelles, una tolleranza di tre centesimi basta e avanza per sfondare il tetto, rischiando di riaprire l’intera procedura di infrazione. Aiuto, già si materializza lo spettro dell’ennesima manovra di aggiustamento dopo le elezioni europee.
Dalla spending review sembra che a questo punto possano arrivare fino a 5 miliardi se si tocca anche la sanità. Renzi si è impegnato a non farlo, dunque è più prudente parlare di 4 miliardi a meno di non trovare alternative concrete. Dunque, solo per coprire il costo dell’Irpef ne servono almeno altri 2,5. In ogni caso, la Ue potrebbe obiettare che i risparmi vanno a coprire spese correnti, quindi a tamponare il deficit e non a ridurre il debito.
Sono un vero rebus. Non si sa a quanto ammontino i crediti vantati dai fornitori, i 65 miliardi dei quali si parla sono una mera ipotesi perché non esistono le certificazioni e, senza le pezze d’appoggio, le fatture, gli scontrini, nessuno si assume la responsabilità. Le banche non pagano, la Cassa depositi e prestiti non può garantire. I bilanci di amministrazioni locali in alcune regioni, come la Campania, sono un pasticcio. Dunque, o il governo decide una sorta di moratoria garantendo tutto (con un impatto sul debito pubblico), oppure bisogna ridimensionare le aspettative.
Esistono poi le difficoltà strutturali della ordinaria politica di bilancio. Prendiamo le entrate fiscali. A partire dal 2011, nonostante le stangate, sono sempre diminuite, e questa è la conseguenza automatica della recessione. E in un anno in cui il Pil crescerà così poco, non sembra che la tendenza possa cambiare. A meno che non arrivi un grande gettito dalle imposte locali e da ulteriori aumenti di balzelli vari. In tal caso, però, si ridurrebbe il reddito disponibile, quindi i consumi e la crescita. Intanto, bisogna trovare anche le risorse per ridurre l’Irap, come promesso alla Confindustria. Lo si farà rincarando le tasse sui guadagni finanziari (esclusi i titoli pubblici) quindi con un certo aggravio della pressione fiscale e una sforbiciata ai risparmi.
Sulla spesa, a parte la ricetta Cottarelli, non c’è nient’altro da fare? Se sono vere le anticipazioni, infatti, non c’è nulla sui dipendenti pubblici. Il blocco del turnover dovrà pur finire, non si può trasformare l’emergenza in regola. In ogni caso, a lungo andare rende sclerotico l’apparato dello Stato. La staffetta generazionale proposta dalla ministro Marianna Madia è troppo costosa, secondo le stime della Ragioneria dello Stato. E la questione degli statali non riguarda solo il numero di impiegati che pure è cospicuo (3 milioni e 200 mila), ma il loro impiego, gli stipendi, la produttività, la mobilità oggi solo volontaria. Si tratta di una grande riforma che va di pari passo con una scelta strategica sul perimetro dell’intervento pubblico. Troppo complicato nel breve termine, ma si può ancora rinviare? Guardando ai Paesi dove la spending review ha funzionato, come il Canada o la Gran Bretagna, si vede che il successo dipende strettamente dall’operazione chirurgica compiuta nel corpaccione dello Stato. Sono gli autisti blu il problema, non solo le auto blu.
Il governo vorrebbe una proroga e se non la ottiene sono guai. Ignazio Visco ha spiegato che non c’è bisogno di nessuna nuova stangata se si realizzano due condizioni: la crescita nominale (cioè compresa l’inflazione) è di tre punti l’anno e se il debito sul pil è a quota 120. Il conto è presto fatto: in tal caso noi dovremmo ridurre il debito di 60 punti in vent’anni e venti per tre fa sessanta. Dunque, inserendo il pilota automatico non ci sarebbero problemi. Ma anche questo è un modello astratto. In primo luogo, la crescita nel 2015 sarà inferiore non solo perché non aumenta abbastanza la produzione interna, ma anche perché nel frattempo l’inflazione scende pericolosamente verso quota zero. In uno scenario di vera deflazione, non solo l’Italia, ma nessun altro Paese dell’area euro potrebbe avvicinarsi ai parametri di Maastricht.
Si dice che la Bce correrà ai ripari comprando titoli sul mercato secondario fino a mille miliardi di euro. Vedremo. È una scelta fondamentale per l’intera area euro, ma per ora sono solo annunci, nessuno ha fatto un calcolo concreto. In ogni caso, l’Italia non può far conto sul pilota automatico perché le manca un’altra condizione: il debito è a quota 133, quindi dovrebbe tagliare non 60, bensì 73 punti nel primo anno (poi, via via il differenziale scende in funzione del ridimensionamento del debito). In sostanza, di qui al 2016, quando concretamente dovrà cominciare il rimborso, bisognerà trovare 13 punti di prodotto lordo pari a 208 miliardi di euro. È mai possibile? Tenendo conto del cosiddetto moltiplicatore fiscale, cioè l’effetto che le politiche di bilancio hanno sulla domanda e sulla produzione, per tener fede al patto fiscale rischiamo di innescare una nuova recessione?
Ci siamo avventurati in una sorta di labirinto perverso, al centro del quale si staglia il circolo vizioso della stagnazione. Tra deficit strutturale e deficit primario, reddito potenziale e reddito reale, crescita in valore e in quantità, bilancio programmatico e non, ci avviciniamo alle sottigliezze della scolastica. La politica fiscale, nelle nuove condizioni, diventa un logorio infinito incomprensibile spesso persino ai pochi iniziati. Un incubo anche perché stiamo giocando sul filo dei pochi decimali di punto. La crescita, quella vera, resta lontana.