TaccolaIl bene e il male degli Activist investor

Il bene e il male degli Activist investor

Squali che azzannano alla vista del sangue le società ferite o abili potatori che sanno meglio di altri individuare e recidere i rami secchi. Gli activist investor, finanzieri capaci di dare l’assalto a compagnie gigantesche con disponibilità liquide in confronto limitate, negli ultimi giorni sono tornati al centro di discussioni accese negli Stati Uniti. Il motivo è l’attacco che uno dei più noti di questi “investitori attivisti”, Bill Ackman, ha sferrato assieme al gruppo Valeant Pharmaceuticals International per l’acquisto dell’Allergan, la società farmaceutica produttrice del Botox. L’offerta, da cui subito Allergan si è detta pronta a difendersi, è stata di 47 miliardi di dollari, ed è stata uno dei tre annunci record che hanno scosso “Big Pharma” (le grandi case produttrici di farmaci) la scorsa settimana. Gli altri due hanno riguardato l’annunciata offerta da 100 miliardi di dollari di Pfizer per l’acquisto di AstraZeneca e l’accordo di scambio di asset, per complessivi 25 miliardi di dollari, tra Novartis e Gsk (con anche Eli Lilly, nella partita). Una mossa, quest’ultima, che potrebbe essere stata effettuata proprio per prevenire scalate di activist investor, come Bill Ackman. 

È per la presenza di Ackman, infatti, che i riflettori, tra le tre partite, si sono concentrati sulla presa di Allergan. Ackman è colui che con il suo hedge fund Pershing Capital Management, da 13 miliardi di dollari di capitale, è stato protagonista di operazioni che gli hanno fruttato miliardi e hanno generalmente lasciato agonizzanti le sue prede. Inserendo la definizione di “activist investor” su Investopedia, il suo nome compare accanto a quelli di Kirk Kerkorian, Eddie Lampert e Nelson Peltz (quest’ultimo noto per aver scalato la PepsiCo), e subito dopo quello del decano della categoria, quel Carl Icahn che qualche anno fa era quasi riuscito a conquistare niente meno che Apple. 

Ma cosa fanno questi finanzieri e perché preoccupano tanto? Un aiuto viene da un recentissimo paper della Harvard Business Review, a firma di Bill George e Jay W. Lorsch, che definiscono il loro modo di agire così: 

Il loro gioco è semplice: comprano azioni che loro vedono come sottovalutate e fanno pressioni sul management perché faccia cose che loro credono ne accresceranno il valore, come dare più soldi agli azionisti o disfarsi di divisioni che loro ritengono abbassino il prezzo delle azioni. Con sempre più frequenza si ritrovano profondamente coinvolti nella governance – richiedendo posti nei consigli di amministrazione, rimpiazzando gli amministratori delegati e propugnando specifiche strategie di business.

Quali sono gli effetti di questo modo di fare? Continua lo studio della Hbr: 

Numerosi studi hanno mostrato che “l’attivismo finanziario” ha successo nel far rialzare i prezzi delle azioni, almeno temporaneamente. Uno studio di primaria importanza di Lucian Bebchuck, Alon Brav e Wei Jiang sugli investimenti degli attivisti tra il 1994 e il 2007 ha anche trovato dei miglioramenti sulla distanza di cinque anni nelle perfomance operative delle compagnie obiettivo.

Noi rimaniamo però non convinti che l’attivismo degli hedge fund sia una tendenza positiva per le aziende e l’economia degli Stati Uniti. Infatti, troviamo che l’attivismo rinforzi l’approccio a breve termine (short-termism) e l’eccessiva attenzione alle metriche finanziarie. 

Gli “activist investor” non sono quindi altro che gli eredi dei “raider” degli anni ’80, quelli che ispirarono la figura di Gordon Gekko nel film Wall Street. Kirk Kerkorian e Carl Icahn, a dir la verità, per la loro età furono protagonisti già di quella stagione. Oggi come allora, uno degli strumenti da loro più usati per far salire nel breve termine il valore delle azioni è quello di smembrare le società. 

Fu quello che fece, ad esempio, nel luglio 2013 Nelson Peltz con PepsiCo. Allora chiamò la presidente e ceo del colosso delle bibite, Indra Nooyi, per dirle che il suo Trian Fund Management aveva accumulato più 1,3 miliardi dollari di azioni della società. Richiedeva che PepsiCo acquistasse Mondelez International, la precedente divisione di snack di Kraft (in cui Peltz possedeva azioni per un miliardo di dollari) e poi dividesse PepsiCo in due entità, una focalizzata nelle bevande e l’altra nel food. Peltz aveva già fatto la stessa cosa proprio alla Kraft, dove aveva costretto la ceo Irene Rosenfeld ad acquistare Cadbury Schweppes e poi a dividere la società risultante in due: la Mondelez, specializzata negli snack, e la Kraft, negli alimentari. La Mondelez aveva faticato a competere con giganti mondiali come la Unilever o la Nestlé e da qui era scaturito il piano di attacco alla PepsiCo. 

Non è certo stato un caso isolato: più di 200 campagne di attivisti, ha ricostruito la Hbr, sono state lanciate nel 2013 e il valore degli asset dei fondi degli activist investor sono saliti del 50 per cento. Sebbene il valore di questi fondi sia stimato in circa 100 miliardi di dollari, meno dell’1% del valore totale del mercato azionario delle società americane, la leva e l’impatto degli attivisti sono di gran lunga superiori ai dollari che investono. A dare queste cifre è stato lo studio legale Wachtell, Lipton, Rosen & Kratz, uno dei più attivi contro queste azioni.

Una lunga ricostruzione di queste battaglie difensive è stata effettuata dal Financial Times il 23 aprile, soprattutto attraverso la figura di Martin Lipton, l’avvocato di Wall Street più famoso nel campo. «Virtualmente ogni attacco di attivisti ha come conseguenza la riduzione degli asset, una riduzione del capitale investito, una riduzione della ricerca e sviluppo, una riduzione del capex (i fondi che una impresa impiega per acquistare asset durevoli, ndr) e, la cosa più significativa per l’economia, una riduzione dell’occupazione», ha detto l’avvocato Lipton al giornale britannico. «È una giusta, appropriata policy nazionale permettere a Carl Icahn di gridare contro una società dopo l’altra allo scopo di prenderle per fare qualcosa che creerà profitto a Carl Icahn?», ha continuato. 

Proprio la crescente rilevanza degli activist investor (nonostante i limiti di questo approccio mordi e fuggi siano stati abbondantemente mostrati dalla crisi finanziaria del 2008) ha portato il paper della Hbr a predisporre un elenco di otto modi che le aziende hanno per difendersi da questi attacchi. Nell’ordine sono: avere un chiaro focus strategico e rimanerci incollati; analizzare il proprio business come lo farebbero gli attivisti; avere consulenti esterni allineati in anticipo e vicini alla società; costruire una chimica, ossia dei rapporti consolidati, nel cda; avere buoni risultati anche nel breve termine invece che solo obiettivi di lungo termine; non sottovalutare le idee degli attivisti; fare il meglio per tutti gli azionisti.

Per ognuno di questi consigli vengono citati dei fatti, e quasi sempre fa capolino Bill Ackman. Si ricorda, per esempio, il caso di della scalata alla catena di grandi magazzini J.C. Penney, che il suo fondo rilevò nel 2010.

Non aveva alcuna esperienza nel settore retail – ricorda la Hbr – ma elaborò piani per rivoluzionare e rivitalizzare l’azienda. Prima rimpiazzò il ceo Ullman con Ron Johnson, il vicepresidente delle attività di retail di Apple. Poi lui e Johnson cambiarono il modello di prezzi di Penney eliminando i coupon e i forti sconti. I risultati furono disastrosi per le vendite e i profitti e per l’investimento di Ackman, che perse quasi 500 milioni di dollari. Ora Ullman è tornato a guidare una società molto ridimensionata.

Spesso gli attacchi vanno a vuoto, come hanno sperimentato Dan Loeb quando provò a scalare la Sony e Carl Icahn con i suoi tentativi contro Apple e eBay. Anche Ackman in una occasione non ce la fece, sempre nel campo del retail. Era il 2007-2008 e cominciò a salire in Target, chiedendo al cda di vendere le attività sulle carte di credito e di vendere gli immobili. Il board in quel caso restò unito, difeso tra gli altri dall’avvocato Lipton, e gli azionisti respinserò con il 73% dei voti il cambio dei manager.  

Ackman è però famoso soprattutto per una vicenda legata ad Herbalife. Il finanziere attaccò il suo modello di business, definendolo uno schema piramidale. Aggiunse in seguito che il suo fondo Pershing Square Capital Management aveva una posizione corta in Herbalife. Aveva cioè venduto allo scoperto le azioni, scommettendo su un ribasso del titolo. 

Ackman disse che avrebbe dato in beneficienza i ricavi di questa operazione. Perché tra le particolarità del personaggio c’è anche la sua filantropia: sostiene vari progetti specifici, tra cui il Center for Jewish History (Ackman è di famiglia ebraica e ha spesso attaccato le discriminazioni pro-Wasp ad Harvard, che frequentò). Ma soprattutto ha aderito al progetto The Giving Pledge, impegnandosi a devolvere almeno il 50% della propria ricchezza in cause di beneficienza. Di questo gruppo fanno parte anche Bill Gates e Warren Buffett. Il quale però, ha fatto capire chiaramente quel che pensa degli activist investor: «Io credo – ha detto il decano dei finanzieri Usa – che a guidare le società ci vogliano azionisti che hanno intenzione di rimanere, piuttosto che quelli che hanno intenzione di andarsene». 

Va però detto, e lo ha ricordato la Reuters, che nella scalata alla Allergan le cose potrebbero essere diverse, per la presenza di un socio industriale come Valeant Pharmaceutical. È come se si fosse portato avanti, ha sottolineato l’analisi dell’agenzia, portando in anticipo il compratore di una futura vendita. E con questo approccio, sempre per la Reuters, potrebbe diventare un modello per gli altri activist investor.