«La storia è una scatola piena di sorprese»

interviste impossibili

Octavio Paz, di cui il 31 marzo si sono celebrati i 100 anni dalla nascita, è stato uno dei più importanti poeti di lingua spagnola del Novecento, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1990 e del Cervantes, il più prestigioso dei premi per la letteratura in lingua spagnola, nel 1981. Paz è stato anche un diplomatico, ha rappresentato il Messico in India dal 1962 al 1968, lasciando l’incarico dopo la strage di Tlatelolco, avvenuta il 2 ottobre del 1968, quando il governo messicano sparò su una manifestazione di studenti uccidendone diverse decine e ferendone centinaia.

Proprio in questi giorni, in concomitanza con il suo centesimo anniversario, la casa editrice Sur ha pubblicato un bel libro che si intitola Anch’io sono scrittura(a cura di Julio Hubart, tradotto da Maria Nicola) una sorta di autobiografia sentimentale e politica costruita usando frammenti, appunti, diari, saggi e scritti vari del poeta messicano. 

Octavio Paz è stato un grande e, come abbiamo già fatto in altri casi con personaggi maiuscoli che ci stanno a cuore e che per noi hanno ancora molto da dire, abbiamo deciso di intervistarlo. Chiaro, non abbiamo fatto alcuna gita in averno, nessuna seduta spiritica con tavolini a tre gambe e bicchieri che tremano. No, niente di tutto questo, perché Octavio Paz era uno scrittore e noi ci siamo limitati a rileggerlo. 

C’è ancora spazio, in questa società individualista e atomizzata per la fratellanza tra gli uomini? Tu ne hai fatta esperienza?
Non so se c’è ancora spazio, ma so che è necessario che ci sia. La parola fratellanza non è meno preziosa della parola libertà: è il pane degli uomini, il pane condiviso. Fu la Spagna a insegnarmi il significato di questa parola. Una domenica mi recai con due amici, Manuel Altolaguirre e Arturo Serrano Plaja, in una località fuori Valenzia e dalla quale avremmo dovuto tornare a piedi perché avevamo perso l’ultimo autobus. Era scesa la notte, camminavamo lungo la strada e d’improvviso il cielo fu rischiarato dall’artiglieria antiaerea. Gli aerei nemici non potevano volare su Valenzia per via del fuoco delle batterie repubblicane che lanciavano le loro bombe al limitare della città, proprio dal lato dove ci trovavamo noi. Il paese che raggiungemmo era illuminato dagli spari. Lo attraversammo cantando L”Internazionale, per farci coraggio e dare coraggio alla gente, e ci rifugiammo in un orto. I contadini vennero a vedere e quando seppero che ero messicano si commossero. Il Messico aiutava la Repubblica e alcuni di quei contadini erano anarchici. Il contadino che ci diede rifugio venne all’orto nonostante il bombardamento, tagliò un melone e, con un pezzo di pane e una brocca di vino, lo divise con noi. Aver mangiato con i contadini sotto le bombe… è una cosa che non posso dimenticare.

Ribellione e rivolta, c’è differenza? Tu da che parte stai?
Sì, c’è differenza. Come individuo, mi sento più vicino alla prima; come uomo sociale alla seconda. Il mio ideale, irraggiungibile, era quello di essere un simile tra i simili. Il ribelle è quasi sempre un solitario; il suo archetipo è Lucifero, il cui peccato è preferire se stesso. La rivolta è collettiva e i suoi suoi protagonisti sono gli uomini comuni. Ma la rivolta, come i temporali estivi, si dissipa in fretta: per il suo stesso eccesso di furia giustiziera esplode e si dissolve nell’aria. Da parte mia ammiro ancora la ribellione, perfino quando non sono d’accordo con alcune delle sue manifestazioni attuali.

Che cos’è il progresso? Che cos’è la modernità?
Baudelaire diceva che il progresso non si misura dalla maggiore diffusione dei becchi a gas nell’illuminazione pubblica, ma dal diminuire delle tracce del peccato originale. Per me l’indice è un altro: la modernità non si misura dai progressi dell’industria, ma dalla capacitò di critica e di autocritica. Tutti ripetono che le nazioni latinoamericane non sono moderne perché non sono riuscite a industrializzarsi; pochi hanno detto che nel corso della nostra storia abbiamo dato mostra di una singolare inettitudine alla critica e all’autocritica. Questa carenza è stata fatale per i popoli latinoamericani: non solo la critica prepara i cambiamenti sociali, ma senza di essa i cambiamenti diventano semplici fatalità che arrivano dall’esterno. Grazie alla critica facciamo nostri i cambiamenti, li interiorizziamo, cambiamo anche noi.

Cosa prevedi per il futuro?
A nessuno è dato saperlo: la storia è una scatola piena di sorprese. Di certo la disintegrazione ha rafforzato i nazionalismi. L’unica ideologia sopravvissuta alla crisi, alle guerre e alle rivoluzione dell’Ottocento e del Novecento è stata il nazionalismo. Come una variabile impazzita, il nazionalismo fa vacillare tutti i calcoli politici. È ovunque, riesce a minare le fondamenta di tutti gli edifici e a esacerbare le volontà. Alcuni sostengono che lo stato-nazione, la grande invenzione politica della modernità, abbia compiuto la sua missione e sia ormai inutile. 

Come possiamo combattere i nazionalismi?
Purtroppo il problema del nazionalismo non riguarda la logica politica, che quindi non può risolverlo: il nazionalismo introduce un elemento passionale, irriducibile alla ragione, intollerante e ostile al punto di vista dell’altro. La cosa più grave è che si tratta di una passione contagiosa.

E come andrà a finire allora?
La resurrezione dei nazionalismi e dei fondamentalismi religiosi ci pone di fronte a un pericolo reale: o saremo capaci di integrarli in unità più vaste, o la loro proliferazione ci porterà al caos politico e, subito dopo, alla guerra. Se ciò dovesse avvenire, troverebbe conferma l’idea di tutti coloro che vedono la storia come una ripetizione insensata di orrori, una monotona successione di carneficine e di imperi che nascono tra le fiamme e sono destinati a morirvi.

Qual è la tua speranza?
Io non propongo di estirpare i nazionalismi. Sarebbe impossibile, e per di più funesto: senza i nazionalismi i popoli e le culture perderebbero individualità, carattere. La cultura è ibridazione. A furia di ripetere meccanicamente le stesse formule e di moltiplicare l’immagine del cesare divinizzato gli imperi finiscono per pietrificarsi. Il rimedio contro il nazionalismo non è l’impero, ma la confederazione di nazioni.

E il mercato?
Il mercato non è una legge naturale Nè una legge divina: è un meccanismo inventato dall’uomo. Come tutti i meccanismi è cieco; non sa dove va, il suo scopo è girare all’infinito. Come nel caso dei nazionalismi, non suggerisco di eliminare il mercato: il rimedio sarebbe peggiore del male. L’elenco delle calamità che ci affliggono non si esaurisce con l’aggressività dei nazionalismi e gli eccessi del mercato.

A che cosa ti riferisci?
Noi siamo orgogliosi, e giustamente, delle nostre libertà, tra cui quella di opinione. Ma siamo anche prigionieri del labirinto di specchi e di echi rappresentato da stampa, radio e televisioni che ripetono, dall’alba fino a notte fonda, sempre le stesse immagini e le stesse formule. La civiltà della libertà ci ha trasformato in un gregge di agnelli. Ma di agnelli che sono anche lupi. Una delle caratteristiche davvero desolanti della nostra società è l’uniformazione delle coscienze, dei gusti e delle idee, unita al culto di un individualismo egoista e sfrenato. Potrei dilungarmi su questa condizione dello spirito o, piuttosto, su questa assenza di spirito. Ma a che pro? Tutti sappiamo che la macchia si estende, che atrofizza la ragione e disegna su tutti i volti il medesimo sorriso idiota e soddisfatto.

Le risposte di Octavio Paz sono tratte dal volume Anch’io sono scrittura, a cura di Julio Hubart, traduzione di Maria Nicola, Edizioni Sur, 2014

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