L’orgoglio della nullafacenza

L’orgoglio della nullafacenza

I dotti si vergognano dell’otium. L’ozio e l’oziare sono invece nobili cose. Se l’ozio è realmente il padre di tutti i vizi, si trova proprio per questo nelle immediate vicinanze di tutte le virtù; l’uomo ozioso è ancora un uomo migliore dell’attivo. Voi però non crederete mica che io con ozio e oziare mi riferisca a voi, vero, poltroni?

F. Nietzsche – Umano, troppo umano §284

Qualche giorno fa sono stato dal medico. Un tizio in gamba, della mia stessa età che conosce il mio mestiere (ok lo conosce all’incirca: gli devo aver detto che faccio il ghostwriter di Cirino Pomicino). Mi ha chiesto come andavano le cose e gli ho risposto che mi sarebbe piaciuto prendermi una settimana di ferie per riuscire a dormire un po’. Ha sorriso e mi ha detto che con gli ultimi tagli al personale anche lui fa dei turni impossibili ma ovviamente non può lamentarsi, perché è già tanto avere un lavoro di questi tempi eccetera eccetera. Ho annuito dal medesimo angolo impegnativo ma ancora privilegiato della tempesta. Alla fine l’ho salutato e gli ho promesso che sì, gli avrei salutato tanto l’onorevole. Uscito dall’ospedale ho chiamato un amico che lavora nell’immobiliare per chiedergli se aveva tempo per pranzare assieme, prima mi ha detto di no, cinque minuti dopo mi ha richiamato dicendo che era riuscito a incastrare due cose guadagnando quaranta minuti di tempo per alimentarsi. Durante il pranzo ha ricevuto cinque chiamate e un numero imprecisato di messaggi e mail e risolto una situazione abbastanza complicata fra l’insalata e il caffè. Io sono stato più fortunato, nel mentre ho ricevuto solo tre mail di lavoro. Alta aristocrazia rispetto a quando collaboravo con un quotidiano cartaceo che era solito spedire alle undici di sabato sera i compiti della settimana seguente. Sorprendentemente si aspettavano che rispondessi senza sbiascicare i caratteri e senza utilizzare vocativi zoologici di lontana derivazione religiosa.

Tornando a casa dall’ultimo reportage ho passato un paio di ore di autostrada ad ascoltare il fotografo, che fa anche il commerciale per un’azienda, parlare con capi e clienti. Erano le nove di sera di venerdì. A un certo punto qualcuno all’altro capo della linea gli ha chiesto di mandare un certo file entro domenica e il suo labiale ha preso sembianze molto simili alle mie mail irate che nei sabati della mia era cartacea poi rimanevano nelle bozze.

Questi non sono casi isolati, grossomodo funziona così per tutti i miei conoscenti sotto i cinquanta con un lavoro: ogni limite orario è stato tacitamente abolito e sostituito con monoliti neri che vibrano quando non dovrebbero. O così o puoi sempre unirti al resto dei tuoi amici che mandano curriculum e sguazzano nella fangosa depressione da stigma sociale sulla disoccupazione e noiosa nullafacenza priva di denaro. (la nullafacenza con il denaro invece è, come noto, fuck yeah).

Il fatto purtroppo non è solo che poche persone devono svolgere lo stesso lavoro che prima facevano, talvolta con fin troppa calma, legioni di uomini, ma anche che la tecnologia, e Leonardo di Caprio, avevano promesso indipendenza e liberazione e invece hanno nebulizzato il lavoro tutto attorno a noi, in una grigia cappa di multitasking che non lascia mai intravvedere l’orizzonte del riposo assoluto e intoccabile.

Il punto fondamentale è che non avere nulla da fare per più di 3-4 secondi, di questi tempi è quanto meno sconveniente. Non è unicamente questione di coercizione professionale. L’ozio è uno degli ultimi tabù sociali e “l’impegno perpetuo” un valore la cui adesione collettiva è facilmente misurabile nei pochi nanosecondi che passano fra il momento in cui dall’altro capo della cornetta vi dicono «Guarda sono incasinatissimo» e quello in cui vi affrettate a specificare che «Sì anche io sono messo di merda». Un maschio annusamento fra gente con un piano. Mostrarsi perennemente indaffarati è diventato l’entry level della vita adulta. È talmente necessario che per nove persone che lo dicono sinceramente, ce ne n’è sicuramente una in riva al mare e il cui soffio di stress simulato rischia di far volare via la foglia di menta decorativa in cima al bicchiere di Mohjito che sta sorseggiando colpevole.

Questo perché la crisi economica con la sua disoccupazione, e il potenziamento degli onnipresenti legacci elettronici sono solo due aspetti correlati di una più generale del culto lavoro e della cinesi auto-assolvente del fare. Nell’ottimistica eventualità che non abbiate chiuso la pagina del browser dopo aver letto “cinesi auto-assolvente del fare” c’è uno spot che rende l’idea in maniera un po’ meno pretenziosa e con un sacco di architettura finto anni 50

Una pubblicità che funziona anche da cartina tornasole della vostra adesione al culto del lavoro, perché se quando Neal McDonough si vanta di fare parte di un popolo che fa meno vacanze degli altri avete istintivamente pensato “bravo coglione” probabilmente per voi c’è ancora speranza.

In questo caso potrebbe esservi sommamente utile In Pausa di Andrew Smart, un ricercatore della New York University che ha scritto (lui assicura dopo un lungo riposino su un’amaca), un libro sulle virtù scientificamente provate dell’ozio, con lo scopo dichiarato di contrastare l’egemonia culturale della religione del lavoro perpetuo. Insomma un libro oggi quasi pornografico.

Il titolo originale del lavoro in realtà è Auto-pilot perché la principale scoperta scientifica su cui si basa il testo è la cosiddetta “rete neurale di default” un potente circuito cerebrale che si attiva «non facendo assolutamente un cazzo» ed è grande amico della creatività e dell’autocoscienza, nonché del benessere. Una rete il cui funzionamento è minacciato da orari di lavoro troppo lunghi, organizzazioni aziendali rigide o dalla connessione perpetua ai social. Rispondendo alle mail, postando l’ultimo selfie e controllando che a qualcuno gliene freghi qualcosa, twittando opinioni non richieste, controllando agende fittissime, gestendo un’infinita d’impegni attiviamo la “task negative network”, la rete neurale che risponde agli stimoli esterni ed è anticorrelata a quella di default. Così facendo spegniamo la voce che ci viene da dentro, oltre che la concentrazione. Secondo Smart in media chi lavora al computer viene interrotto ogni tre minuti, passando dal 25 al 50 per cento della sua giornata lavorativa a chiedersi «a che punto ero arrivato?». Non sono pochi gli scrittori anglosassoni ad esempio che usano app per bloccare i social mentre scrivono, abitudine irrisa da Paolo Di Stefano sul Corsera con la sicumera e la profonda comprensione dei meccanismi della tecnologia del tizio che sosteneva non ci sarebbe mai stato mercato al mondo per più di cinque o sei computer.

Dentro In Pausa l’idolo indiscusso di Smart è Rainer Maria Rilke con il suo vagabondare cogitabondo e fannullone in giro per l’Europa in cerca d’illuminazione poetica e risposte profonde sul mistero dell’esistenza.

(Rilke, pensieroso)

Il ricercatore confronta impietosamente il poeta e altre figure fondamentali della cultura e della scienza, come Newton, con la vita stipata d’impegni degli universitari americani, presso i quali è ormai sospetto non ammalarsi ogni tanto per via delle troppe cose da fare e dello stress.

Vite in cui non c’è più spazio per quelle estenuanti discussioni, che durano notti intere, sui massimi sistemi e che hanno sempre contraddistinto le giovinezze degli studiosi e degli artisti. Discussioni quasi sempre inutili ma formative. Smart utilizza diversi studi scientifici sul cervello per sostenere la necessità neurologica della variabilità, paragonando all’epilessia i metodi di organizzazione aziendale standardizzanti come il Sei Sigma inventato dalla Motorola e adottato anche da molte altre multinazionali, colpevole di diminuire oltre al benessere dei dipendenti anche l’efficienza della ricerca industriale fino al 30 per cento.

In pausa attacca le strategie di “life hacking”, ovvero di organizzazione del tempo in maniera più efficiente, rivendicando l’assoluta autonomia dell’ozio, anche e soprattutto nell’infanzia. I bambini americani con la loro formazione ossessivamente orientata al superamento dei test e all’impegno costante di ogni scampolo del giorno sono migliorati nei dati che misurano Q.I. ma sono diminuiti continuamente, e in modo drastico, in quelli che misurano la creatività. In altre parole non c’è niente di meglio che riempire di corsi e attività un bambino per far sì che l’unica cosa che sappia dire su un unicorno immaginario è che è “unicornoso”.

Evgeny Morozov ha recentemente denunciato gli sforzi delle aziende di internet nel creare “metodi di riposo” integrati, ovvero app o tecniche che permettano un’ottimizzazione del tempo in grado di sostenere l’attuale modello di sviluppo del web basato sull’incentivare a qualsiasi costo la presenza online, pensando i social network in modo da creare dipendenza, maggiori visualizzazioni e maggiore permanenza on line. Tutte cose che si traducono da un lato in maggiori incassi per chi li gestisce, dall’altro in maggiore stress per chi li utilizza.

Mi chiedo se un giorno scopriremo mai le devastazioni emotive globali frutto di trovate luciferine come l’orario di visualizzazione dei messaggi su fb, o la temibile doppia spunta su whatsapp, il cui unico scopo è tenervi dentro il sistema, costi quel che costi.

In pausa al contrario è un inno alla lentezza, alla riflessione e all’indipendenza, contrapposta al dinamismo per il dinamismo, il movimento come spiegazione ultima.

Sostenere l’importanza dell’ozio è paradossalmente una posizione che può avere ricadute sulla produttività, perché spesso le soluzioni più impensate alle questioni di lavoro ci vengono in mentre facciamo altro, o meglio ancora, nulla. È il mitico potere della rete di default. (I passaggi fondamentali di quest’articolo ad esempio sono stati pensati davanti al laghetto di un parco, contemplando 7sette paperelle, due tigli e un cane dalla scarsa moralità).

Smart però va oltre questa visione ibrida, è un fondamentalista dell’ozio per l’ozio e l’utilità del libro si circoscrive così, si fa per dire, al fatto di fornire una ricca miniera di esempi e teorizzazioni scientifiche a sostegno della necessità fisiologica della nullafacenza. Probabilmente il poter ammantare le proprie richieste di riposo con un’impagabile aura di scientificità, non vi eviterà il licenziamento, ma se non altro vi permetterà di vivere il nuovo status di disoccupazione come dei piccoli Galileo Galilei incompresi.

(un neurone mentre cazzeggia)

Nella sua estrema foga, per altro utile contrappeso in un dibattito assolutamente sbilanciato, Smart evade però il punto centrale della sostenibilità dell’ozio assoluto. L’importanza della rete neurale di default e della contemplazione certo non dovevano essere sfuggite, seppure a livello intuitivo, agli antichi greci con il sommo e assoluto disprezzo del lavoro, ma in questo erano aiutati dal piccolo vantaggio strategico di avere degli schiavi. Allo stesso modo la posizione era condivisa in Asia dai nobili confuciani che si facevano crescere unghie lunghissime per testimoniare la loro totale astensione del lavoro. Così come nel taoismo il wu wei ovvero il “non agire” è il comportamento preferibile per una persona veramente illuminata. Sempre a patto che qualcun altro lavori per lui, s’intende. L’illuminismo, la razionalità strumentale e la democrazia di massa hanno aperto l’epoca della dignità del lavoro ponendolo dichiaratamente al centro della società. Così esso ha svolto la funzione di agente liberatore per fasce enormi di umanità ma al tempo stesso ha assunto un controllo assoluto su ogni aspetto dell’esistenza come un tiranno sempre più esigente.

Conciliare le due tendenze fondamentali insite nel lavoro (la liberazione dalle gerarchie immutabili delle società e la nuova schiavitù dall’impiego stesso), in un mondo globalizzato e sempre più competitivo, è una sfida titanica, che va ben oltre gli obiettivi prefissi del libro di Smart. In pausa si limita piuttosto ad essere un’utile trattazione scientifica utilizzabile come strumento in un dibattito, di questo tipo che è per sua natura molto più ampio.

Qui basti dire come in passato abbia avuto una grande popolarità l’idea che sarebbe stata proprio la tecnologia a permettere questa coabitazione fra l’uguaglianza degli esseri umani e libertà dal lavoro. Peccato che questa speranza non abbia mai trovato alcuna reale applicazione, e la tecnologia si sia sempre tramutata in un mero strumento in grado di generare maggiore efficienza produttiva. Una dinamica esemplificata magistralmente da una vicenda narrata proprio da Smart nel suo libro. Si tratta della storia dell’informatizzazione, da parte di esperti danesi, di un’azienda bulgara, un’operazione che permise di dimezzare i precedenti tempi di lavoro. L’effetto, imprevisto dai tecnici, fu però che finito quello che era stato fino a quel momento l’ammontare di lavoro quotidiano, i dipendenti se ne andavano a casa, lasciando gli uffici vuoti dopo quattro ore.

A qualcuno toccò l’ingrato compito di spiegare che non funzionava così e che avevano preso la libertà promessa dalla tecnologia un po’ troppo sul serio.

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