Marlon Brando, nel suo elemento naturale

Da un profilo di Truman Capote

Dal 3 aprile 1924 almeno fino al 9 novembre 1957, Marlon Brando non aveva mai aperto un romanzo. Niente narrativa, soltanto manuali di respirazione yoga, meditazione, filosofia e pensiero buddista. «L’appartamento dell’hotel Miyako era una di quelli arredati secondo il gusto giapponese, al contrario degli altri. C’erano due camere, un bagno e un solarium. Senza sovrapporle lo scompiglio degli averi di Brando, la camera sarebbe stata un’immagine perfetta per un catalogo di arredamento orientale. I pavimenti erano rivestiti di tatami, punteggiati di discreti cuscini di seta. C’era un dipinto raffigurante alcune carpe nel loro elemento naturale e dietro a esso stava un vaso pieno di gigli e foglie rosse. La più grande delle due stanze – quella interna – che gli occupanti usavano come una sorta di ufficio e dove lui dormiva e mangiava, conteneva un lungo tavolo laccato e un giaciglio. In queste stanze il contrasto tra arredo giapponese e occidentale – il primo incentrato sulla mancanza di oggetti, un’assenza totale di messa in mostra dei possedimenti, l’altro fondato sull’esatto opposto – era evidente, perché Brando sembrava non voler utilizzare gli spazi di stoccaggio dell’appartamento, divisi dal resto degli ambienti da porte di carta di riso. Tutto quello che possedeva era lì, da vedere. Magliette, da lavare, calzini, scarpe e maglioni e giacche e cappelli e cravatte, sparsi in giro come i vestiti di uno spaventapasseri fatto a pezzi. E macchine fotografiche, una macchina da scrivere, un registratore, una stufetta elettrica in funzione con soffocante efficacia. Qui e là frutta spizzicata. Una scatola delle famose fragole giapponesi, grandi quanto delle uova. E libri». A scrivere è Truman Capote, sul New Yorker, dopo aver raggiunto Brando in Giappone. Descrive un uomo di trentatré anni, all’apice del successo, tanto in alto nella scala gerarchica dell’industria cinematografica da superare di una spanna i produttori e potersi permettere un contratto privato con una major – la Warner Brothers. Talmente in alto da essere già un’icona, da avere già accumulato abbastanza metri di pellicola da lasciarsi andare con il fare di una star consumata. Senza mezzi termini, qui parliamo di una leggenda, raccontata da un’altra leggenda.

Brando si trovava in Giappone da più di un mese, stava partecipando alle riprese di Sayonara, di Joshua Logan. Un paio di anni prima aveva vinto un Golden Globe e un Oscar come miglior attore protagonista per Fronte del porto, ma era stato già nominato dall’Academy per tre volte – Un tram che si chiama desiderio, Viva Zapata! e Giulio Cesare – e Sayonara gli sarebbe valso la quarta nomination, senza contare l’Henrietta Award – un premio della stampa internazionale che fino al 1980 ha eletto il miglior attore del mondo –, del 1956. Miglior attore del mondo, a trentadue anni.

Capote andava a scrivere di colui che si era elevato sulla massa brulicante dell’industria in sviluppo, assieme a pochi altri, e si preparava a entrare nell’Olimpo per non uscirne più. Era una mosca bianca, una forma inedita di genio brullo. «Alcuni della compagnia pensavano che la protezione sociale applicata su Brando dal suo stretto giro di collaboratori – tre o quattro persone, guidate da Marlon Brandon Sr. in veste di manager – gli impedisse di entrare in contatto con lui bene come avrebbero voluto. Durante il tempo passato in Giappone si è distinto sul set come un piacente giovanotto, piacevolmente trasandato, sempre pronto a cooperare con i compagni – soprattutto gli attori – anche se spesso non socialmente disponibile. Che preferiva, durante le lunghe e noiose pause tra una scena e l’altra, stare seduto in disparte e leggere libri di filosofia o scribacchiare su un quadernetto a righe. Dopo la giornata di lavoro, anziché accettare gli inviti dei colleghi per una bevuta, un piatto di pesce crudo in un ristorante e un giro furtivo nel vecchio quartiere delle geyshe di Kyoto, invece di contribuire all’atmosfera da grande famiglia, di festicciole bonarie che generalmente contraddistingue il lavoro di una produzione all’estero, tornava al suo hotel e ci restava».

Marlon Brando assieme a Marilyn Monroe

«Brando è una delle persone più eccitanti che io abbia conosciuto dopo Greta Garbo. È un genio, ma non so come è fatto. Non so niente di lui» diceva nella stessa occasione Joshua Logan. E se è vero che i più grandi fan dell’industria sono quelli che ci vivono dentro, Brando è stato la più grande ed eclatante eccezione. Mancavano ancora una ventina d’anni alla seconda volta da miglior attore protagonista – per Il padrino, nel 1973 – cui avrebbero fatto seguito altri due Henrietta, diversi Golden Globe e l’eterna luce a illuminare il più grande, largo e comodo tra i viali del tramonto. Scelto, non imposto, alla fine degli anni settanta, con la lucidità di un uomo maturo e la frenesia di un ragazzino. Anticipato dal suo personaggio perduto e in declino: il colonnello Kurtz di Apocalypse Now. Come è noto, l’Oscar per Il padrino non lo avrebbe ritirato, per protesta a favore dei nativi americani, unico caso nella storia del cinema. Ecco, il Brando raccontato da Capote nel 1957 è già il ritratto, riconoscibile e chiaro, di quello che poi sarebbe diventato. È la storia di una persona prima che di un attore, fedele a se stessa. Libera di scegliere e contenta di farlo.

L’importanza dell’esercizio delle proprie scelte è sempre stato un punto fondamentale della carriera di Marlon Brando, che difficilmente si è prestato a comparsate o ha accettato ruoli che non sentiva lo rappresentassero. E anzi, il fatto di approvare il ruolo, di non uscire da quelle che erano le sue idee e le sue predisposizioni è stata la cosa che lo ha, probabilmente, trasformato nell’icona che è.

«Torta di mele, è tutto quello di cui ho bisogno. Dovrei essere a dieta ma riesco a mangiare solo torta di mele e cose del genere» dice Brando a un Capote incuriosito e pungente, che guarda entrare e uscire una cameriera ridacchiante – «i giapponesi ridacchiano, è tutto quello che fanno, e le donne ridacchiano ancora più degli uomini» – che a ogni passo sembra dover inciampare nel kimono svolazzante. La cosa delle torte di mele è un perfetto esempio di come doveva essere parlare con lui intorno ai suoi trent’anni. Diceva quello che pensava e faceva i film che gli piacevano, come gli piaceva farli. Certo, molto ha aiutato il fatto di essere un fenomeno vivente, gradevole da osservare e estremamente preciso e meticoloso nel suo lavoro. Però la libertà assoluta di scegliere di assomigliare al proprio personaggio, di diventare il proprio personaggio, è un valore aggiunto al quale non tutti gli attori possono aspirare, anzi probabilmente molto pochi, oggi. È qualcosa che va di pari passo con la coscienza di sé, con la consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti, e in certi casi della loro esasperazione.

 https://www.youtube.com/embed/pSWtQpYLf2M/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

«Sei mai stato in analisi? – chiede Brando a Capote a un certo punto, quando finalmente l’intervista entra nel vivo. All’inizio ero spaventato. Avevo paura che potesse distruggere gli impulsi che mi rendono creativo, un artista». Consapevolezza di sé, appunto. «Una persona sensibile capta cinquanta segnali dalla stessa fonte dalla quale chiunque altro ne coglierebbe solo sette. Le persone sensibili sono molto vulnerabili. È così facile abusare di loro, ferirle. Perché sono così sensibili. Più sei sensibile più è facile che ci rimarrai male, che ti riempirai di cicatrici. Non evolvere mai. Non permettere a te stesso di provare niente, perché proveresti sempre troppo. L’analisi aiuta. Comunque gli ultimi otto, nove anni sono stati un casino…». È come sentire parlare una rockstar, un genio incompreso, un eccellente reietto. È difficile dipingere addosso a queste parole la faccia di Brando, fargli indossare la maglietta bianca e il giubbotto di pelle, dargli quello sguardo che chiunque riconoscerebbe pur non avendolo mai visto recitare. Ma è allo stesso tempo una grande prova dell’umanità che chiunque lo conoscesse gli attribuiva e per la quale anche oggi, a dieci anni dalla sua morte e novanta dalla sua nascita, nessuno si sognerebbe di togliergli un centimetro di quanto ha guadagnato. Di quanto ha costruito. E l’industria, commossa, ringrazia.