C’è un fatto. Magari spiacevole, fastidioso, diciamo pure odioso, ma che è pur sempre un fatto: Obama se ne andrà dalla Casa Bianca come il presidente con alle spalle più espulsioni nella storia degli Stati Uniti fino a oggi. Sudamericani, soprattutto, lavoratori agricoli, membri di quelle comunità e di quelle minoranze che hanno sostenuto a spada tratta la sua elezione e caldeggiato il rinnovo del mandato. Sostenitori e difensori dei diritti degli immigrati, ora piuttosto contrariati per come si stanno mettendo le cose. Sono quasi due milioni le persone rispedite al Paese d’origine, in un’escalation di malcontento che lo scorso marzo è valsa al Presidente l’epiteto di “deporter-in-chief” – deportatore in capo, quasi.
A parlare per tutti e lanciare la pubblica accusa è stata Janet Murguia, capo del National Council of La Raza, la più grande associazione per i diritti degli immigrati del Paese, che ha aggiunto: «Obama dovrebbe smetterla di cercare di distruggere le famiglie». Di questo si tratta, in parte, perché spesso chi viene espulso dagli Stati Uniti viene separato dai familiari e difficilmente trova il coraggio e le risorse per tentare di sfidare un programma di ricongiungimento familiare labirintico e che potrebbe risultare insidioso perfino per i parenti nati sul suolo americano. Si tratta magari di giovani che hanno servito nell’esercito, si sono diplomati, sposati, hanno fatto dei figli che per la legge sono americani quanto i loro vicini WASP. Certo c’è anche una questione di amor di Patria, per niente facile da instillare ma che una volta assunto è altrettanto difficile da perdere, e di quel marchio indelebile che rimane a macchiare i visti di chi è entrato passando sotto – o scavalcando – le recinzioni ed è costretto a uscire attraverso il posto di dogana.
Non è soltanto il numero degli espulsi a indignare gli attivisti, ma anche il metodo con cui vengono applicate le espulsioni. Più di un quarto dei deportati negli ultimi due anni, infatti, non ha subito un processo prima che il provvedimento venisse applicato. Si tratta di pratiche abbastanza comuni per il Border Patrol e l’Ice — Immigration and Customs Enforcement — che si sono dati da rispettare l’inquietante obiettivo di qualcosa come 400mila espulsioni l’anno. Nel corso dell’amministrazione Bush i fondi destinati al controllo delle frontiere erano saliti, di pari passo con il sentimento occlusivo del governo, ma quelli per i tribunali dell’immigrazione avevano continuato a scendere, di pari passo con la complicazione dell’adempimento burocratico, e così è rimasto per i primi sei anni di Obama — salvo che anche i fondi per Ice e Bp si sono sgonfiati considerevolmente — con il risultato di lasciare 363.239 casi in attesa di giudizio. Per lungo tempo gli esecutori dei provvedimenti hanno avuto — e applicato allegramente — la possibilità di rimpatriare i clandestini senza passare per una corte di tribunale, con una sorta di accordo di rientro volontario, che aveva come unico vantaggio quello di non lasciare segni sui visti né sulla fedina penale dei migranti, facendo pensare alla possibilità di un rientro agevole, se di agio si potesse parlare in questi casi. Questo ha dato l’illusione, con Bush, di un corretto funzionamento di una macchina che faceva fatica ad avviarsi. Nel 2005, però il Departement of Homeland Security ha preso ad applicare una formula chiamata expedited removal — espulsione rapida, esiste dal 1996 e ha interessato il 39 per cento dei rimpatri eseguiti nel 2012 — che non prevede comunque niente di più che un processo informale, mantenuto sotto le soglie di guardia dei tempi burocratici, e che lascia il marchio di infamia su chi ne subisce il trattamento. C’è da dire che gli agenti del Bp e i passacarte dell’Ice avrebbero l’obbligo di garantire la sicurezza dei rimpatriati, assicurandosi che non sussistano condizioni di rischio per la vita e favorendo il diritto d’asilo. I numeri dicono che è molto raro che questo accada e le testimonianze sono di persone «troppo spaventate» per esporsi oltre quanto gli viene chiesto — strappato, estorto? — nei momenti immediatamente successivi all’arresto.
Quello che tutti stanno aspettando, ma che si perde nella cortina di nebbie fumose del Congresso, dove alle richieste pressanti dei democratici risponde il silenzio di gomma dei repubblicani e degli indipendenti, è l’ immigration reform bill, presentato da otto senatori nel 2013 con il titolo ufficiale di Border Security, Economic Opportunity, and Immigration Modernization Act e che include il DREAM Act, vale a dire quel disegno legge che dovrebbe garantire ai giovani tra i 15 e i 29 anni, entrati negli Stati Uniti da bambini e che abbiano frequentato i licei o prestato servizio militare, un accesso facilitato ai permessi di lavoro e in seguito alla cittadinanza. Il documento definitivo, si direbbe, con cui il gabinetto Obama si è guadagnato la fiducia della maggior parte di coloro che adesso puntano il dito, in grado di comparire e sparire nello spazio di inserimento di problemi sempre più pressanti. E nel frattempo, a sporgersi dai recinti di filo spinato, San Diego continua a somigliare a un miraggio.
Il documento della contesa si fonda su quattro punti fondamentali e risolutivi. Innanzitutto quello di fornire una via agevole verso la cittadinanza per gli immigrati, che dovrebbe richiedere circa tredici anni per quanto riguarda i residenti non autorizzati e meno per quanto riguarda gli operai agricoli e i DREAMers. Poi viene lo stanziamento di 46milioni di dollari per rinforzare i controlli di confine e consentire una presenza capillare delle forze di polizia specializzata, che va di pari passo con il rafforzamento delle procedure di controllo del lavoro e dei visti di permanenza. Il quarto punto all’ordine dell’atto, e forse il nodo gordiano che permetterebbe di oliare un sistema farraginoso, prevede lo smaltimento della coda di attesa per visti e giudizi, e conferirebbe fluidità agli ingressi regolati, oltre a prevenire gli inghippi burocratici. Alla base di tutto sta il rinnovamento del sistema della green-card in modo che si trasformi in un programma di stampo familiare e lavorativo, con l’assegnazione di “punti” che determinino l’idoneità di ogni immigrato alla cittadinanza permanente.
Pedro Martinez, 18 anni, di Oxaca, Messico, poche ore prima di provare a passare il confine (John Moore / Getty Images)
A chi si aspettava che Obama fosse l’uomo della riforma, si contrappone chi non è soddisfatto nemmeno del contrario. Il numero degli ingressi illegali negli Stati Uniti non è diminuito significativamente da quando il Presidente in carica ha preso ufficio, considerando un calo fisiologico dovuto alla crisi che si contrappone in modo netto al picco positivo del 2007 — durante l’amministrazione Bush. Ma due milioni di espulsioni — dicono gli scettici — non sono due milioni di persone rimpatriate. Se un clandestino fosse stato rimpatriato nel corso degli ultimi sei anni e poi fosse rientrato illegalmente nel Paese per essere rimpatriato di nuovo, questo conterebbe come due espulsioni. Non è esattamente una tesi solida, per la verità, ma bisogna prenderla in considerazione quando si fanno i conti in tasca a una Nazione che ha a che fare con un flusso migratorio importante quanto quello che interessa i confini statunitensi. Una seconda giustificazione, sicuramente più attendibile, è che il picco negativo, dovuto alla recessione, ha acuito la curva positiva di ingressi registrata in seguito ai primi segnali di ripresa. Anche in questo si tratta di prospettive, di punti di vista, di numeri che letti da un’altra angolazione cambiano valore, peso e attendibilità.
La verità è che le espulsioni dell’amministrazione Obama stanno, seppur lentamente e non senza inghippi, trasformandosi in espulsioni “intelligenti” — o più intelligenti di quanto lo siano state fin ora. Se a Bush si poteva liberamente contestare la scarsa attenzione alla scelta delle persone non gradite — chiunque vivesse entro cento miglia dai confini, ad esempio, era considerato un nuovo ingresso e quindi idoneo al rimpatrio, non importava da quanto effettivamente fosse in territorio americano — ora la macchina burocratica si sta producendo in un lavoro più capillare di selezione e valutazione dei soggetti. Oltre gli ingressi recenti, dunque, si dovrebbero colpire più duramente i recidivi e chi ha subìto una condanna nei due anni successivi all’ingresso. Tutto giusto in linea di principio, ma anche difficile da applicare e da verificare, senza una legge solida, chiara e condivisa. La strada è più lunga e insidiosa di quanto appaia, insomma, e ricorda da vicino quella che da Juárez porta a El Paso.