La campagna elettorale s’infiamma per gli insulti tra i contendenti (comme d’habitude) e tuttavia ci si accalora anche, forse per la prima volta in modo vasto e appassionato, sul futuro dell’euro. I contenuti della querelle, però, riguardano il passato non il presente, perché oggi i problemi per l’euro non vengono più dall’interno.
Le mosse di Mario Draghi del 2012 e gli sviluppi successivi hanno tolto la moneta europea dai bersagli della speculazione e hanno cambiato le aspettative del mercato finanziario globale. Quanto durerà è tutto da stabilire, ma intanto le cose stanno così. Non solo. Le politiche di austerità hanno cominciato a dare i loro frutti. Con costi sociali (e politici) molto seri, che potevano essere più leggeri se solo si fosse risposto in modo efficace e immediato al crac greco nella primavera del 2010 (e qui la responsabilità cade soprattutto sulle spalle di Angela Merkel). In ogni caso, ormai Dublino paga il denaro sul mercato meno di Londra; il Portogallo emette titoli senza la ciambella della Bce; la Spagna torna a crescere; e anche l’Italia può cogliere la ripresiena. A meno che gli artigli dell’orso non lacerino questa sottile trama.
Il vero pericolo per l’area euro, infatti, in questa fase viene dalla Russia. Su questo hanno dibattuto giovedì scorso i banchieri centrali nel consiglio della Bce, esprimendo tutte le loro preoccupazioni, ammesse chiaramente nella conferenza stampa.
«I rischi geopolitici avranno un impatto sull’eurozona più che in altre parti del mondo – ha detto Draghi – E hanno a che fare non solo con la crisi in Ucraina, ma con la situazione economica in Russia e la potenziale escalation delle sanzioni. È una situazione molto complessa che potrebbe evolvere e noi siamo sicuri soltanto di una cosa: che l’area euro e l’Unione europea nel suo complesso saranno colpite più che altrove», ha insistito il presidente della Bce. Il perché è ovvio: l’Europa, a partire dal collasso del comunismo, si è strettamente integrata con la Russia. È stata una scelta politica, prima ancora che economica, che ha influenzato anche le strategie delle banche e delle imprese, spinte dai governi ad investire con forza nell’ex nemico. “A Mosca, a Mosca”, ma per fare affari.
Adesso, sta maturando una svolta in senso opposto che mette sotto pressione in primo luogo le politiche energetiche. La pressione principale nell’area euro ricade sulla Germania e sull’Italia. L’effetto più immediato sarà un peggioramento dei costi e della competitività nei due principali paesi manifatturieri d’Europa. Con tutte le conseguenze del caso.
Il ciclone russo s’abbatte già sui grandi gruppi, basta guardare i bilanci del primo trimestre. La banca francese Société Générale ha perso addirittura mezzo miliardo di euro. Carlsberg, il colosso danese della birra, ha visto declinare del 14% gli utili nell’Est europeo, ma anche la tedesca Heineken denuncia un crollo degli utili. Imperial Tobacco, la multinazionale inglese, ha perso in Russia il 7% delle vendite. Quelle di Unilever (il secondo maggior produttore di beni di consumo al mondo) si sono ridotte del 6,3 e la svedese Oriflame cosmetics ha pagato la brusca svalutazione del rublo. Dunque, non solo banche, energia o difesa (i francesi rischiano di perdere la ricca commessa per due navi da guerra Mistral), ogni tipo di scambio mercantile con la Russia viene ridimensionato.
Per quel che riguarda l’Italia, un campanello d’allarme suona per Eni e i suoi stretti legami con Grazprom, per Unicredit e Generali che hanno delle controllate russe o per buona parte delle medie imprese visto che la Russia è uno dei nostri importanti mercati di sbocco. C’è poi da considerare l’effetto sulle società nel cui capitale sono entrati gli oligarchi russi (da Unicredit a Pirelli).
Circa 160 miliardi di euro sono usciti dalla Russia e si sono riversati nell’Europa occidentale, ha detto Draghi. Non si sa esattamente dove, ma si vede chiaramente l’effetto sul cambio della moneta che continua ad apprezzarsi rispetto al dollaro. L’inflazione, di conseguenza, scende verso quella soglia zero sotto la quale si apre la ripida gola della deflazione. Per evitare questo pericolo la Bce vuole rispondere con le misure non convenzionali evocate più volte da Draghi e dovrebbe farlo, stando alla discussione nel consiglio, il prossimo 5 giugno. Sul cambio non può intervenire direttamente, ma spera di frenare in ogni caso la rivalutazione dell’euro.
Ecco, questo è il dilemma che riguarda la moneta unica. Nei comizi e nei talk show, invece, si discute del 2011, di Berlusconi e dell’annus horribilis, di Monti lo stangatore (2012), di Letta il temporeggiatore (2013), non di quello che accade in questa primavera del 2014 e di come l’Unione europea che uscirà dalle urne affronterà il nuovo scenario destinato a cambiare le nostre vite (bollette elettriche, inquinamento, sicurezza, pace).
Sull’euro viene gettata la colpa della mancata crescita anche se fino al 2008 il prodotto lordo era aumentato in assenza di inflazione e con tassi di interesse bassi. Si evoca con nostalgia la lira, ma davvero le performance della vecchia valuta possono suscitare rimpianti? Michele Fratianni e Franco Spinelli nella loro “Storia monetaria d’Italia” ricordano che dal 1893, anno della nascita della Banca d’Italia, al 1993, anno in cui la lira di fatto si arrende, il franco francese era passato da una a 25 lire, il franco svizzero da una a mille lire, la sterlina da 25 a 2.250 e il dollaro da 5 a 1.400. «Nei mesi che vanno dalla crisi del 1992 alla primavera del 1995 la politica monetaria italiana ha segnato uno dei punti più bassi della sua intera storia – scrivono i due economisti – Si è squagliata completamente, sottraendosi a ogni responsabilità di fornire un’ancora ai mercati».
Si dice che l’euro non ha ridotto, ma ampliato, la divergenza tra i paesi che lo adottano. Vero. Ciò è dovuto al gap di produttività che la moneta non ha colmato. E qui si tocca la grande piaga dell’Italia: il reddito pro capite è sceso dai primi anni ’90 in poi perché in parallelo è diminuita la produttività. Spetta alla banca centrale chiudere la forbice? Semmai sarebbero la politica fiscale e, ancor meglio, quella salariale a dover affrontare il divario. In un’area monetaria integrata gli aggiustamenti non avvengono con il cambio, ma con le tasse e le buste paga, come dimostrano gli Stati Uniti.
Solida è la critica, anzi l’accusa, a chi ancora rifiuta una soluzione comune per il debito. Non sarebbe stato opportuno farlo in assenza di una regola solida riguardo ai bilanci pubblici (visto che quella del 3% non è stata rispettata da nessuno), ma con il fiscal compact e la norma costituzionale del pareggio, il no agli eurobond è solo ideologico.
Ancor più serio è il vizio di fondo: la mancanza di una politica fiscale comune per accompagnare e bilanciare la politica monetaria. Gli europeisti ortodossi rispondono che si procede passo dopo passo, e che gli Stati Uniti hanno impiegato un secolo per avere una vera unità monetaria e un prestatore di ultima istanza (la Federal Reserve è nata nel 1913). Tuttavia, una moneta senza sovrano resta un caciocavallo appeso. E lo dimostra proprio la nuova minaccia all’euro, quella esterna che ha sostituito quella interna.
Di fronte al neonazionalismo russo, l’Europa può rispondere rinazionalizzando le sue politiche? A cominciare dalla sicurezza energetica, ambientale e militare, per non parlare della sicurezza finanziaria? In che modo la fine dell’euro, il ritorno a monete nazionali fluttuanti, ci rende più forti nei confronti della Russia putiniana? I capitali in movimento come elettroni liberi, acquisterebbero nuove lire instabili e svalutate? Il bilancio dello stato italiano sarebbe in grado di aggiungere altro debito per tamponare le conseguenze sociali e produttive?
Certo, c’è anche chi sogna un asse Roma-Berlino-Mosca (ammesso che Berlino accetti la nuova lira). Se qualcosa può andar male, allora andrà male, recita l’assioma fondamentale delle legge di Murphy (e non è solo un paradosso ironico). Ma si dica chiaramente dove si vuole portare il paese così che gli elettori possano calcolare le loro convenienze. In ogni caso, è ora che nella campagna elettorale irrompa in modo chiaro la questione russa della quale non ha mai parlato nessuno dei leader in lizza, anche perché s’è fatta quanto mai urticante per tutti. Fortunatamente ne hanno discusso Draghi e i suoi che sono senza dubbio tecnocrati non eletti dal popolo, ma qualche volta hanno lo sguardo più lungo del popolo e dei suoi “commissari”.