La “mucca dalle cento mammelle” non c’è più. In tanti si sono attaccati e hanno succhiato, ma il latte è finito. Il copyright per la metafora spetta a Cesare Geronzi che è stato presidente delle Assicurazioni Generali ed è stato defenestrato il 6 aprile del 2011, dopo appena un anno. Ex post, il banchiere, rimasto a presiedere la fondazione del Leone di Trieste, si è preso una bella rivincita perché il capo della fronda che lo ha scalzato, l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto sul quale Geronzi aveva puntato il dito, è stato messo sotto accusa dal nuovo top manager, quel Mario Greco che ha avviato una profonda trasformazione della compagnia.
Una parte delle operazioni imbastite durante la vecchia gestione, in particolare quelle con i soci riuniti in Ferak, sono nel dossier su cui indaga la magistratura e per le quali Greco ha aperto un’azione di responsabilità contro il suo predecessore. All’assemblea è stato presentato il rapporto della Kpmg che non verrà reso noto (anche se i suoi contenuti sono stati già pubblicati dal Sole 24 Ore). La ferita brucia: ci sarebbero 234 milioni di perdite in seguito ad arzigogolati finanziamenti ad alcuni azionisti come i veneti (Palladio di Roberto Meneguzzo, Veneto Banca, Vallebruna della famiglia Amenduni, Finit di Andrea De Marchi e Andrea De Vido, la famiglia Zoppas) e la Cassa di risparmio di Torino. Il contenzioso è aperto e i protagonisti smentiscono ogni malefatta. Altri affari bollenti, come i rapporti sulfurei con il finanziere ceco Petr Kellner, sono costati davvero cari: per chiudere una faccenda che stava diventando una trappola infernale, le Generali hanno acquistato per 2,6 miliardi il 49% della holding Ppf in mano a Kellner, pagando in due tranche (la prima con il bond trentennale di 1,25 miliardi lanciato nel dicembre 2012). Un divorzio oneroso, anche se in questo modo ha preso il 38% della compagnia russa Ingosstrakh.
Il mercato ha approvato la svolta: quando si è insediato Mario Greco, il primo agosto 2012, un’azione valeva 10,27 euro (era arrivata al minimo di 8,56 il 24 luglio dello stesso anno), il 2 maggio ha chiuso a 16,79 con un aumento del 63,49%. Gli investitori non hanno apprezzato solo la politica della ramazza. Perché fin dall’inizio l’amministratore delegato ha annunciato di volersi concentrare sul mestiere, cioè l’assicurazione, sciogliendo via via tutti gli intrecci che avevano trasformato le Generali prima nella gemella siamese di Mediobanca e poi nella erede della banca d’affari, una sorta di super-salotto buono. È proprio questo ricentraggio strategico che ha contributo a far crescere il valore del titolo. Adesso il piano triennale è arrivato al giro di boa.
All’assemblea generale del 30 aprile è stato tutto un congratularsi per i risultati raggiunti, soprattutto da parte del presidente Gabrieli Galateri e di alcuni soci forti, a cominciare da Caltagirone, De Agostini e Del Vecchio, per non parlare di Mediobanca che, parole di Galateri, «Ha dato una decisa spinta guidata da Alberto Nagel». Non solo. Le celebrazioni sono state estese alla rafforzata presenza degli investitori istituzionali esteri, che oggi arrivano al 15% rispetto al 9% del 2012. Un ulteriore segnale di fiducia verso la gestione della compagnia. Soprattutto da parte di BlackRock il cui presidente Larry Fink si è incontrato con Galateri. In realtà, l’uomo dal braccio d’oro, quello che gestisce consistenti pacchetti azionari in tutte le più grandi imprese mondiali, si è recato anche alla Consob dove ha parlato con Giuseppe Vegas e ha avuto un colloquio con Matteo Renzi al termine del quale è stato fatto trapelare un giudizio positivo sul sentiero politico imboccato dal governo. Tutto bene, dunque? Un tripudio di elogi, un vero trionfo? Calma e gesso.
Con il realismo che lo contraddistingue, è stato proprio Greco a mettere le mani avanti. Certo, i 56 miliardi di titoli pubblici italiani in portafoglio non destano più allarme, ma la crisi del 2012 ha lasciato ferite aperte. Le emissioni di allora a tassi del 10% hanno fatto aumentare gli oneri (751 milioni nel 2013 rispetto a 668 milioni l’anno precedente). Gli ultimi titoli collocati mostrano rendimenti tra 3 e 4 per cento, ma gli effetti si vedranno nei prossimi anni. Il primato delle polizze, punto fermo della strategia di ritorno al mestiere, non ha dato i risultati sperati. La raccolta premi sui danni è scesa leggermente, invece avrebbe dovuto fornire un contributo maggiore. In Italia da dove proviene circa un terzo dei premi, la compagnia ha perso il 7,6% nel ramo danni e l’11% nell’auto. I dati del bilancio 2013 al 30 aprile di quest’anno mostrano un calo complessivo dei premi lordi che va avanti dal 2010 anche se sia il risultato netto sia il patrimonio netto sono migliorati. «Questo sarà ancora un anno complesso – ha ammesso Greco – ma guardiamo al 2014 e al 2015 con fiducia». Poi ha aggiunto un impegno che richiede di rimboccarsi le maniche fino ai gomiti: «La compagnia deve fare più utili e li farà». Se lo dice “il napoletano di ferro”, come è stato chiamato l’amministratore delegato, allora c’è da credergli.
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Anche l’uscita dal salottismo capitalista viene perseguita con tenacia e determinazione, abbandonando i patti di sindacato in scadenza o in dissoluzione: Mediobanca, Rcs, Pirelli, Telecom, Gemina, Ntv (i treni Italo di Montezemolo), Prelios, Agorà. Ma per sciogliere i nodi ci vuole tempo. Anche perché, inutile negarlo, senza più nessun perno del sistema, priva di un primo motore immobile attorno ai quali poteri ruotare, la galassia del nord finisce in pezzi. E i “gioielli della corona” diventano facili prede dei capitalisti che i capitali li hanno o comunque possono trovarli, al contrario degli esangui eredi delle vecchie famiglie.
Un problema resta aperto anche nella governance. Bisogna leggere con attenzione le dichiarazioni di Fink. Il big boss di BlackRock durante il pranzo organizzato lunedì scorso da Borsa italiana ha detto che «per competere e attrarre investitori bisogna avere strutture azionarie simili a quelle di altri paesi e una governance di qualità». Attorno al tavolo c’erano Nagel, Galateri, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Pietro Scott Jovane. Insomma quel che resta del salotto creato da Enrico Cuccia e spolverato dai suoi eredi. Gli stessi che, duramente colpiti dalla crisi e dai sette anni di vacche magre (lo sboom dei subprime cominciò nella primavera del 2007), si sono decisi bon gré mal gré a rompere i legami incestuosi durati mezzo secolo. Il processo è cominciato, un cammino ineluttabile, rispetto al quale sarà difficile se non impossibile fare marcia indietro. Ma ancora non ci siamo. “Strutture azionarie simili a quelle di altri paesi” (cioè modello anglo-americano) a tutt’oggi non esistono.
Parlare di public company all’Eni o all’Enel, anche se sono aumentati i fondi di investimento, è solo evocare un sogno (i vertici sono di nomina statale e rispondono ancora oggi a criteri politici). Per quel che riguarda Telecom c’è una partita in corso sull’assetto azionario dopo che gli spagnoli hanno preso il controllo di Telco (la holding che detiene il pacchetto più rilevante). Lo stesso vale per Rcs (l’assemblea si terrà la prossima settimana) divisa tra la coppia Mediobanca-Fiat, Intesa e Diego Della Valle. Non parliamo di Banca Intesa dove decide soprattutto la Fondazione Cariplo o la stessa Unicredit che pure ha un azionariato molto più aperta. Dunque, la proprietà conta e determina la gestione. La separazione tra i due momenti della vita aziendale, della quale scrivevano gli americani Alfred Berle e Gardiner Means negli anni ’30 del secolo scorso, rilanciate dall’inglese Ronald Coase, resta in Italia un’utopia a differenza dagli Stati Uniti o dalla Gran Bretagna. Lo stesso assetto delle Generali, del resto, lo dimostra.
Azionista numero uno è Mediobanca con il 14,79% (sia direttamente sia attraverso la scatola Inv. A.G.), segue il Fondo strategico italiano che fa capo al governo attraverso la Cassa depositi e prestiti con il 4,48% (è la quota che prima stata nel portafoglio della Banca d’Italia), poi Del Vecchio (3%), il gruppo de Agostini (2.43%), Caltagirone (2,23), la Fondazione Cariplo (1,53%), Ferak (1,02) e Benetton (0,9). Poi i fondi che però non fanno blocco e il cui potere nella scelta degli amministratori è minimo. A decidere chi guida l’impresa è l’azionista di riferimento con i suoi alleati attraverso accordi fuori dall’assemblea. Lo stesso problema esiste in tutti gli altri grandi gruppi e ad esso, abbastanza chiaramente, ha fatto riferimento Fink.
Ciò solleva due questioni che non vanno affatto sottovalutate. La prima riguarda la proprietà e i suoi diritti: chi possiede di più ha più potere. La seconda il rischio che un “campione nazionale” venga conquistato e piegato a interessi diversi da quelli del paese. Sono obiezioni che appaiono di retroguardia se si guarda a un mercato mondiale ideale, ma diventano ben rilevanti oggi che la stessa globalizzazione sta indossando una pelle di leopardo. Per non discutere troppo in termini teorici, basta guardare all’impatto che la crisi con la Russia ha su gruppi fortemente esposti nell’est europeo come Unicredit o le stesse Generali.
C’è chi parla di ritorno della geopolitica e con essa degli interessi nazionali come fa Walter Russell Mead sull’ultimo numero di Foreign Affairs. In ogni caso, evitare un deleterio protezionismo non equivale a cedere senza contropartite le risorse nazionali. E le assicurazioni come le banche attingono alla principali risorse che oggi l’Italia possiede, cioè il risparmio e il patrimonio, quelle stesse che rendono il paese ancora tra i più ricchi del mondo.
«Le Generali non sono scalabili, l’ho detto anche quando ero presidente – ha dichiarato Geronzi nel dicembre scorso a Panorama – Comunque, l’Italia deve fare muro, e di cemento armato, poi lasciar lavorare il management che sta facendo bene, ha mosso le acque limacciose». Niente semplicismi ideologici, è proprio la logica del mercato a insegnare che gli interessi si perseguono e si difendono al meglio. In altre parole, trovare un assetto efficace e democratico (nel senso della democrazia economica) senza sbracare, è una equazione non facile tanto meno nel capitalismo italiano che viene fuori a fatica dal bozzolo dentro il quale è stato protetto (dallo stato) e si è protetto (con il patto tra i “poteri forti”).
Le Generali si stanno muovendo grazie a Mario Greco. La sua era una scelta obbligata, ma quante volte chi è messo di fronte ad alternative che sembrano inevitabili, si ritrae prima di aver fatto il passo decisivo? Adesso il problema è trovare un nuovo assetto stabile. Una discussione che non riguarda il management soltanto, ma gli azionisti. È questo il compito del prossimo anno.