Gli chef italiani alla conquista dell’Est

Gli chef italiani alla conquista dell’Est

All’Ovest niente (o poco) di nuovo, all’Est praterie da conquistare, senza pensare che abbiano gli anelli al naso. La prossima frontiera dell’enogastronomia tricolore non può che partire dal Mediterraneo, toccare il Golfo Persico e spingersi al triangolo d’oro Cina-Hong Kong-Giappone che sembra la mecca per gli chef famosi come i gruppi del wine e food. Sembra, perché non è un giochino da ragazzi.

I pionieri del Far East

La prima ondata risale agli anni ’90 con l’Enoteca Pinchiorri a Ginza, il cuore di Tokyo. Non fu una passeggiata: troppo ampia la differenza culturale, troppo faticoso il reperimento di prodotti per fare vera cucina italiana. Oggi, la mitica coppia di titolari Annie Feolde-Giorgio Pinchiorri è impegnata direttamente solo a Nagoya, dove nel 2007, hanno aperto uno spazio nel Toyota Building. «Sicuramente un’altra storia, qui abbiamo avuto meno problemi a selezionare e formare il personale come è stato più facile trovare i cibi giusti» ha ricordato la chef in una recente intervista al magazine L’Espresso. Quattro anni dopo il varo di Enoteca Pinchiorri – era il ’96 – il divin Gualtiero (Marchesi, ndr) sbarcò a Kobe con il suo locale, affidandolo a un allievo tra i migliori, oggi non a caso tre stelle: Enrico Crippa. Ma più che un vero successo, il passaggio nel Sol Levante contribuì ad arricchire la filosofia marchesiana ed aumentare la sua fama mondiale. Ancora oggi, è il solo chef italiano ad essere noto, soprattutto tra i colleghi.

Pioniere in Cina è stato invece Claudio Sadler, che tra il 2003 e il 2008, ha gestito un ristorante – affiancato da una pizzeria – a Pechino. Buoni risultati ma ha preferito non continuare viste le difficoltà a 360°. Funziona invece bene La Festa, il locale italiano di Taipei che ha come titolari quelli dello stellato La Credenza di San Giovanni Canavese (Torino) – Igor Macchia e Giovanni Grasso – e serve piatti italianissimi, pur tra non pochi problemi di approvvigionamento.

Istanbul: si muove Bottura, con Eataly

I tempi sono cambiati, oggi gli chef si muovono supportati da realtà potenti, spesso locali. Per esempio, lunedì 26 maggio apre a Istanbul il Ristorante Italia di Massimo Bottura, all’interno dello Zorlu Center, che ospita Eataly: uno spazio di grandi dimensioni con una ampia sala arredata con pezzi italiani con una sessantina di posti distanziati, una balconata sul Bosforo con altri 60 posti e un grande bar interno/esterno. Lo chef modenese controllerà l’andamento del ristorante da Modena. È un accentratore totale ma questa volta non poteva non delegare, così l’executive chef sarà Davide Montano di Albenga, che curerà il menu delle “cento ricette”. Spiega Bottura: «in realtà, abbiamo messo a punto 150 piatti. Rappresentano nel loro insieme la nostra storia culinaria nazionale che ci ha resi celebri nel mondo. Mi sono misurato con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, l’ottocentesca bibbia delle cuoche italiane che “fotografa” la grande tradizione in cucina dopo l’Unità d’Italia. Da qui sono partito per rivisitare i piatti e non per reinventarli: voglio dare loro più forza sia nella preparazione che nel gusto per consolidare la nostra tradizione».

Beck d’Arabia

A proposito di Eataly, dopo la conquista del Giappone – lo scorso anno, il fatturato dei dieci punti vendita ha superato i 25 milioni di euro – il nuovo obiettivo è ripetersi negli Emirati Arabi. Da qualche mese, il Dubai Mall ospita sette ristorantini, già di successo. Giappone e Oman sono anche nel mirino di herr Heinz Beck, lo chef bavarese (ormai romano d’adozione) che ha portato la Pergola dell’Hotel Cavalieri, a Roma, alle tre stelle: a Tokyo si prepara il debutto di due locali (uno gourmet con il suo nome e il bistrot Sensi), in partnership con il gruppo assicurativo Kato, mentre a Muscat si attende per luglio l’apertura del Belcanto, all’interno della Royal Opera House. Il modello è ricalca quello sperimentato con successo al Social by Heinz Beck, dentro il Waldorf Astoria Palm Jumeirah. Per la cronaca, regna la miglior cucina mediterranea. Ancora a Dubai, da poche settimane, ha aperto Vivaldi: definito un ristorante di “autentica cucina pan-italiana”, si trova all’interno dello Sheraton Creek Hotel ed è gestito dal piemontese Alfredo Russo, titolare dell’affermato Dolce Stil Novo alla Reggia di Venaria Reale. Tre livelli d’ambiente e di cucina (Locanda, Lounge e Gourmet) per venire a una domanda sempre più sofisticata.

Le nuove frontiere dell’Asia

Hong Kong è un altro polo sempre più strategico. In sostanza i più famosi chef del mondo hanno uno o più locali, gestiti direttamente o in società. Gli italiani sono arrivati in ritardo ma stanno recuperando bene e peraltro già vantano il tre stelle Otto e Mezzo, del bravo Umberto Bombana, e L’Altro, diretta filiazione del Miramonti l’Altro di Concesio (Brescia) aperto poco meno di un anno fa. Il debutto felice della famiglia Piscini ha dato lo spunto per investire su un altro fronte, sempre nella metropoli. «Visto che manca la vera pizza – ha spiegato l’executive chef Philippe Leveillé – entro fine anno lanceremo cinque pizzerie italiane in cinque quartieri diversi della città». In arrivo anche un locale decisamente originale, nato dalla collaborazione tra Giacomo Marzotto (figlio di Gaetano, presidente del gruppo Santa Margherita) e Gerard Li, uno dei big della ristorazione locale. Si chiama Sepa – seppia in veneto – ed è un’osteria in stile veneziani con i “cicheti” e piatti di cucina classica, firmati da uno dei migliori cuochi italiani, il toscano Enrico Bartolini.

Curioso (sino a un certo punto) che l’Oriente rientri nelle strategie del più noto cugino di Giacomo Marzotto, Leone che ha acquistato due anni fa Peck – la celebre gastronomia milanese – con il padre Pietro. Non soddisfatti del fatturato della ventina tra punti vendita e corner nel Sol Levante, il gruppo sta ripensando il sistema. «Ora abbiamo obiettivi più ambiziosi, non solo in Giappone ma anche a Taiwan, Singapore e prossimamente a Manila e Seoul – rivela Leone Marzotto – ma rispetto al passato puntiamo più sulla cucina, con la formula del bistrot di qualità, che sulla vendita semplice di prodotti».

In sostanza, si sta verificando un fenomeno che i più lucidi addetti ai lavori pronosticavano da tempo: più che a piazzare i prodotti nudi e crudi, è la cucina italiana a fare la differenza “tecnica” e il “value for money”. Primo, perché non c’è frode e non c’è inganno mentre la contraffazione del made in Italy resta un problema enorme (e irrisolto, al di là delle mille parole). Secondo, perché i top chef di casa nostra non temono confronti, al di là delle varie classifiche internazionali. Certo, si potrebbe vedere la bottiglia mezza vuota: stante un mercato interno fermo (salvato solo dai turisti gourmet), più che una nuova visione sembra una mezza fuga dall’Italia. Ma questo è un altro discorso, che sarà valutabile non prima di un paio di anni.

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