Tutti abbiamo bisogno di gridare Help una volta nella vita. Prima John Lennon, quando si ritira in Andalusia, ad Almería, in piena crisi esistenziale per girare il film Come ho vinto la guerra di Richard Lester (qualcuno lo ricordava?). Poi il professore d’inglese Juan Carrión che nel 1966 si mette in viaggio per incontrare il cantante: «Abbiamo bisogno dei testi delle canzoni, per studiare» pare abbia chiesto a Lennon, mostrandogli i quaderni colorati pieni di lacune — se il miticoalbumSergeant Pepper’s (e a ruota gli altri sei) ha i testi lo dobbiamo al professore iberico, oggi arzillo novantenne, che insegnava l’inglese ai suoi alunni con le musiche dei Beatles. Infine l’Help di David Trueba, regista spagnolo di Vivir es facil con los ojos cerrados (La vita è facile a occhi chiusi, che da noi uscirà a ottobre), il trionfatore — con sei statuette — ai premi Goya 2014, il più importante riconoscimento del cinema spagnolo: «I giovani sono frustrati e sarà difficile cambiare le cose se non si convinceranno che è il singolo che può e deve cambiare la realtà intorno a sé», ha detto il registra ritirando il premio.
Una meraviglia, nel senso etimologico del termine, che di per sé oggi è già qualcosa di raro. O meglio un film «luminoso», come ripete più volte Javier Cámara, miglior attore protagonista, ospite di punta del Festival del cine español, rassegna di cinema iberico organizzato da Exit Media al suo debutto a Milano.
Al cinema Apollo, tra un sorso di birra San Miguel e una cucchiaiata di crema catalana, Cámara sorride, si toglie il cappello, si aggira tra il pubblico, risponde cordiale, firma autografi. L’ultima volta che il pupillo di Almodóvar veniva a Milano era il 1992: «ero così giovane…» ironizza. Dell’Italia ama Paolo Sorrentino, Alberto Sordi e la Sicilia in particolare.
Le luci si spengono e comincia una commedia agrodolce con il passo del road movie sulle tracce di John Lennon e di tutto ciò che, in piena dittatura, sa di rivoluzione, di libertà. Nel film c’è la Spagna grigia, a volte nera, degli anni Sessanta, quella con la scritta «Franco, Franco, Franco» sulle colline della Sierra Nevada, quella degli schiaffi in faccia, dei racconti di disertori di Mussolini e di donne italiane che fanno innamorare. C’è una Seat verde 850 in viaggio verso il deserto di Tabernas, dove si sono girati parecchi Spaghetti western. Ci sono due ragazzi che fuggono da qualcosa, ognuno con le proprie paure a rimorchio: un adolescente ribelle (Francesc Colomer) che scappa da un padre padrone, una ragazza incinta (Natalia de Molina ) da una Chiesa che, in silenzio, vuole farsi carico del neonato. E c’è l’ottimismo inguaribile del professor Antonio (Javier Cámara), goffo cinquantenne che cita il poeta Antonio Machado a memoria, parla in inglese (in un’epoca in cui la prima lingua è il francese) e vede i giovani come il motore del cambiamento: esalta l’eroismo degli umili e rifiuta di leggere la recente storia iberica — la dittatura ieri, la crisi economica oggi — se non come una serie di raffreddori di stagione trascurati. Per intenderci, in quegli anni in Spagna cantare una canzone dei Beatles equivaleva a fare una dichiarazione politica. E non proprio amica della dittatura franchista.
«Quando ero giovane non apprezzavo la musica dei Beatles o dei Rolling Stone — dice Javier Cámara — sono stato molto eclettico, non mi è mai piaciuto un gruppo in particolare. Ho avuto l’epoca di Prince, il funky… e anche adesso cambio spesso genere: ascolto cantautori americani, musica francese, ascolto quello che ascoltano i miei amici, ma non ho un nome. Solo canzoni, momenti, album…». Come Strawberry fields forever, la canzone che John Lennon compose proprio durante le sei settimane di permanenza ad Almería, e la cui prima strofa è diventa il titolo del film di Trueba.
Di John Lennon, allora 26enne, ad Almería rimane un monumento (il cantante seduto su una panchina con la chitarra in mano). Per il resto ci sono i ricordi di una Roll Royce, del Delfin verde, l’appartamento fronte mare dove abitava, e della spiaggia del Zapillo, dove al tramonto compose la canzone. Come molti inglesi, John Lennon si scottò al sole iberico, firmò quattro volte degli autografi a un gruppo di bambini del quartiere e, come si vede in qualche foto d’epoca, andava in giro succhiando dei chupa-chups, una delle grandi invenzioni spagnole del XX secolo.
Nel film Lennon offre al professore d’inglese biscotti alla marijuana e lo trattiene per ore dentro una roulotte. Juan Carrión ha raccontato invece che fu ricevuto mentre giocava a pallone con il suo amico Michael Crawford, che al cantante piacque molto l’idea che i bambini imparassero l’inglese con le sue canzoni, che corresse tutti i quaderni e che assicurò che i prossimi dischi avrebbero avuto un testo scritto. E così è stato fino al 1970, quando il gruppo si sciolse.
Insomma, quasi tutto è credibile. Tranne il titolo: né in sogno, né con gli occhi ben chiusi, vivere è facile. O meglio lo è solo per il donchisciottesco Antonio, soprannominato dai suoi alunni “il quinto Beatle”: «È un personaggio positivo, qualcuno che crede che dalla difficoltà possa nascere qualcosa di buono. Abbiamo bisogno di gente così, abbiamo bisogno di gente positiva», conclude l’attore, premio Goya.
Il vero professore d’inglese, d’altronde, quello che trascriveva le canzoni ascoltandole su Radio Luxembourg, nonostante l’età continua ad insegnare. E pare torni spesso ad Almería, canticchiando.