John Niven: parlare col diavolo

John Niven: parlare col diavolo

«Ero uno studente, a Glasgow, e avevo questo vicino di casa alcolizzato. Faceva un sacco di casino. Una sera sono tornato e ho trovato la sua porta aperta, stava con un altro paio di tizi e si erano fatti di eroina. Lui era andato. Andato proprio, morto. Leggevo un sacco, biografie di rocker soprattutto, e da qualche parte avevo colto che per far riprendere qualcuno in overdose bisognava ficcargli un cubetto di ghiaccio su per il culo, perché il freddo improvviso avrebbe indotto uno shock. Ovviamente prima siamo andati fuori di testa, gli abbiamo provato a versare del caffè in bocca e poi glielo abbiamo rovesciato in faccia, ma a un certo punto mi è venuta in mente questa cosa dei cubetti. E ha funzionato, quando è arrivata l’ambulanza era fuori pericolo». Immaginate questo aneddoto raccontato con un forte accento scozzese — una roba alla Danny Boyle, per capirci — uscire dalla bocca di un tipo tarchiato e duro che somiglia spaventosamente a Ricky Gervais prima di perdere venti chili.

John Niven non è il diavolo, è un diavolo. È uno che ha vissuto la sua vita con un’intensità esemplare e che ha il coraggio di raccontarla com’è: godereccia e sfacciata, piena fino all’orlo del liquido giallognolo che riempie le giornate di ormai pochi scrittori al mondo. L’ho conosciuto mentre si aggirava per i bar di Ivrea con una camicia a pois e il passo da nave ammiraglia. La risata e il bicchiere facile in compagnia di una ragazza molto bionda e piuttosto giovane.

Qualcuno una volta ha detto che la comicità è per il 90 per cento bestemmia e per il resto verità. John Niven è un diavolo di scrittore comico, venato di tragedia nera, e i due libri tradotti in Italia — da Marco Rossari, splendore sullo splendore — rendono merito alla sua magnifica bestialità. In A volte ritorno, una cosa molto simile a un monologo di George Carlin messo su carta con tutta la sua amarezza, la mela bacata è Gesù Cristo. «Non riconosco il concetto di bestemmia, sono ateo, per me è qualcosa di illogico. Non mi sento di offendere qualcosa in cui non credo. Spero che nei miei libri ci sia un bel po’ di comico. Ho scoperto che mi viene piuttosto facile scrivere cose che facciano ridere. A un certo punto, al mio sesto libro credo, ho cercato di fare qualcosa di nuovo, di allargarmi e di lasciare un po’ in pace la mia vena comica, ma non mi è riuscito un granché» e allora i pezzi di realismo, di tragedia, si insinuano tra le pagine con la delicatezza di un demolitore che piazza le cariche, misurando le posizioni al centimetro.

Il risultato è che a un certo punto crolla tutto, la maestria sta nel controllo. «Mi piace la brutalità se è presentata in maniera elegante. Mi piacciono le parolacce quando stanno in una frase ben costruita. Mi piace che una prosa ricercata possa essere condita dalle bestemmie. Il rischio è quello di diventare troppo pomposi, troppo ricercati, io evito questo rischio usando un linguaggio diretto, senza mai pulire niente ma in modo che tutto quello che scrivo sia perfettamente chiaro. Una volta ho chiesto al mio traduttore tedesco quale pensava fossero le ragioni del mio successo in Germania. Mi ha risposto: “Ai lettori piace il modo elegante con cui costruisci le frasi e il modo in cui imprechi”».

I personaggi di Niven non sono antipatici, sono detestabili. Kennedy Marr, il protagonista di Maschio bianco etero, appena uscito per Einaudi, è insopportabilmente pieno di sé e incarna l’esagerazione, declinata all’eccesso. «A me piacciono. Non so perché mi piacciano, questa domanda me la aspetterei dal mio analista, se ne avessi uno. Potrei citare Milton quando ha detto che scrivere dei cattivi è molto più divertente che scrivere dei buoni. La felicità è stupida quando la vedi scritta. Ho fatto un libro, in realtà, in cui il protagonista era un tipo a posto, ma era circondato da pezzi di merda: sua moglie era una stronza, suo fratello un maniaco e così via. Lì mi sono accorto del fatto che tutti i personaggi secondari erano molto più divertenti rispetto al protagonista, ma lui era il perno della storia, per cui non potevo farne a meno. Mi piacciono le persone senza speranza, completamente fottuti, perché hanno carattere». Il fatto è che a vederlo, viene il sospetto che anche Niven sia uno dei suoi personaggi abbietti e il suo passato nell’industria discografica non lo aiuta affatto.

John Niven a La grande invasione (Karta Ivrea)

«Viviamo in un tempo in cui la letteratura ha perso valore e la gente, i lettori, pensano sempre che qualsiasi cosa scrivi sia una specie di autobiografia. E non è per forza così, anzi spesso è tutt’altro. È come quando la gente pensa che tutti gli scrittori mettano le persone che conoscono nei loro libri. In fondo è vero, però non sono mai persone vere, quanto collage di persone vere. Le persone vere normalmente non vanno bene per un libro, bisogna prendere cosa c’è di buono nella gente e metterlo assieme per far venir fuori i personaggi». Nel primo libro di Niven, Kill Your Friends — ancora inedito in Italia e che sta per diventare un film — c’è tutta la cattiveria in potenza che ha popolato i suoi lavori successivi, «non scrivi qualcosa come Kill Your Friends perché odi veramente l’industria musicale, ma perché la ami. È come diceva Johnny Rotten: “Non scrivi God Save the Queen perché odi l’Inghilterra, ma perché la ami e vuoi che impari”. Quando tieni i lettori così vicini ai tuoi cattivi personaggi per quattrocento o cinquecento pagine, succede una cosa simile alla sindrome di Stoccolma e finiscono per affezionarsi anche a quello che odiano di più».

Quello che sta facendo adesso John Niven, nel caso che qualcuno se lo stesse chiedendo, è scrivere contemporaneamente tre film e un romanzo. «Quando scrivevo Kill Your Friends era l’unica cosa che facevo e speravo che ne valesse la pena. Ora darei qualsiasi cosa per poter lavorare a un progetto alla volta, ma alla fine è un po’ quello che mi son cercato, per cui fanculo, va bene così». John Niven è corazzato della grandeur di una rockstar e perfettamente calato nella parte. John Niven è il diavolo.