Tra qualche mese sarebbe dovuto diventare ufficialmente il capo della Lega Basket, la Confindustria della pallacanestro, quella che organizza il campionato di serie A, la Coppa Italia e l’All Star Game, gestendo i soldi di licenze e diritti commerciali-audiovisivi. Invece per Ferdinando Minucci, ex presidente della Mens Sana Siena, top club italiano di pallacanestro, sono scattati gli arresti domiciliari con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari. Ordinanze di custodia cautelare anche per Stefano Sammarini, titolare della Essedue Promotion, azienda che curava scouting e marketing della squadra senese, Nicola Lombardini, direttore finanziario della stessa compagine e la segretaria del club sportivo Olga Finetti. Le indagini erano partite nel 2012 con l’operazione “Time Out” della Guardia di Finanza, che ha permesso di ricostruire una presunta frode fiscale perpetrata dal 2006 ad opera della Mens Sana con alterazioni contabili, fatturazioni false per prestazioni mai avvenute, manipolazioni delle dichiarazioni dei redditi, soldi che uscivano dalla porta e rientravano dalla finestra.
Gli inquirenti parlano di pagamenti in nero ai giocatori grazie a società estere (16 milioni di evasione per 25 tesserati) e fondi non dichiarati al fisco. I metodi illeciti utilizzati, sottolinea la Gdf, servivano anche per «produrre provviste di denaro contante per l’arricchimento personale e spese fuori bilancio». Secondo l’accusa Minucci sarebbe «l’ideatore e il regista» del gruppo, in cui risulta indagato pure Jacopo Menghetti, attuale direttore sportivo della Mens Sana. Il tutto sulle spalle di un club supertitolato che ora vede il collasso: con la sponsorizzazione di Mps in scadenza, ad aprile la Procura ha avanzato istanza di fallimento nei confronti della Mens Sana ipotizzando il reato di bancarotta fraudolenta da parte dei suoi amministratori dopo che l’assemblea dei soci ne aveva deciso la messa in liquidazione a seguito della mancata approvazione del bilancio, chiuso a giugno 2013 con un passivo di 5,4 milioni. Senza contare che a dicembre, a conclusione della parte amministrativa dell’inchiesta, era stato notificato al club un processo verbale di contestazione per presunte evasioni che ammontano a 23 milioni. È il crepuscolo di un impero, in smobilitazione tra le lacrime dei tifosi e una mole di intercettazioni, perquisizioni, segnalazioni bancarie nella stessa provincia dello scandalo Montepaschi.
Lo psicodramma sportivo non poteva non essere legato alla banca. Due destini da montagne russe, ieri il palio e oggi fantini a terra. Ex dipendente del Monte dei Paschi, Ferdinando Minucci a Siena è considerato il dominus del basket. Ventritrè anni da dirigente, presidente e general manager della Mens Sana per poi diventare, con l’irresistibile ascesa del club, il gran cerimoniere della pallacanestro italiana. La scalata alle stelle arriva grazie ai rubinetti aperti da Rocca Salimbeni che a Siena ha foraggiato anche calcio e tennis, ma la palla a spicchi è figlia prediletta. Dal 2000 la banca firma con il club un contratto di sponsorizzazione di 14 anni ed è l’inizio di una svolta epocale per una squadra fino a quel momento normalissima. Decine di milioni di euro (100 solo tra il 2006 e il 2013) investiti da Mps in quella che diventa «la Barcellona d’Italia», leader del campionato e top club europeo. In dieci anni la corazzata di campioni ingurgita otto scudetti, cinque Coppe Italia, sette Supercoppe Italiane, quattro Final Four di Eurolega e dodici titoli giovanili. Due allenatori «condivisi» con la Nazionale come Pianigiani e Recalcati, ma anche decine di top player del calibro di McIntyre, McCalebb, Kaukenas, Hackett. La Mens Sana è per tutti «la diciottesima Contrada», proiettando una città di 60.000 anime in una dimensione internazionale per molti inimmaginabile.
Un ciclo irripetibile, scintillante, esagerato. In prima fila l’ex presidente Mps Giuseppe Mussari, tifoso-amico-alleato di Minucci spesso avvistato al Palasport con la sciarpetta. Uno dei suoi ultimi atti in Mps, oggi oggetto dell’inchiesta, è la firma di un contratto per la cessione del marchio Mens Sana alla neonata Brand Management s.r.l. (società del sopracitato Stefano Sammarini) che poi glielo avrebbe riaffittato. L’operazione comportò per Mps un esborso di 8 milioni di euro sotto forma di finanziamento, permettendo al club di “alterare” il proprio bilancio inserendo una plusvalenza straordinaria anziché contabilizzare il ricorso al credito. Ma negli anni per la Mens Sana non sono mancate nemmeno le grane sportive come gli esposti dei club avversari, le accuse di aiuti arbitrali e le rimostranze per «aver ucciso la concorrenza con budget faraonici». Minucci, inossidabile, replicava: «Qualcuno pensa che quello di Mps verso di noi sia assistenzialismo, io rispondo dicendo che noi abbiamo dato al Monte dei Paschi almeno quanto il Monte dei Paschi ha dato a noi. Se il Monte nel mondo ha un’immagine vincente, è anche merito nostro». Il ritornello si sposava peraltro a quello cantato dal sindaco di Siena: «La Mens Sana ha diffuso nel mondo il marchio Mps».
Avanti con la marcia trionfale. Nominato Commendatore e Grande Ufficiale al merito della Repubblica, per tre anni consecutivi Minucci vince il premio di “Miglior dirigente della serie A” e nel novembre 2013 si aggiudica la “Retina d’Oro”, mentre i blogger senesi parlano di «agiografia aprioristica» nei suoi confronti. I colleghi lo stimano e lo temono, qualcuno non lo può vedere. Elogi, invidie, silenzi assensi. Tant’è che a febbraio 2014 a larga maggioranza viene eletto presidente della Lega Basket, nonostante le indagini per frode fiscale pronte a esplodere come una bomba a orologeria. Con uno spiffero carpito da Panorama dai corridoi della Lega: «Se abbiamo eletto l’indagato Berlusconi per vent’anni allora non si vede perchè non si possa eleggere anche Minucci». Emblematiche pure le dichiarazioni di Claudio Sabatini, storico patron della Virtus Bologna: «Minucci mi sta antipatico ma come dirigente non si discute. Non si vincono sette scudetti per caso e oggi lo ritengo il migliore per ricoprire quella carica». La nomina entrerebbe a regime il prossimo luglio ma la Lega ha già diramato una nota in cui «prende atto delle notizie sul sig. Minucci che saranno oggetto di apposita analisi in una prossima assemblea». È una corsa a smarcarsi, in Federazione e tra i presidenti si chiede un cambio di rotta per «evitare di compromettere ulteriormente l’immagine della pallacanestro italiana», già piegata da anni di crisi. Oggi il secondo sport di squadra italiano è il fantasma di se stesso, quasi non ricorda di esser stato tra i migliori campionati d’Europa, padre di piazze storiche come Bologna (Virtus e Fortitudo), Pesaro, Varese, Treviso, Milano. Città da cinquemila abbonamenti, trasferte di massa, derby accesi quanto quelli calcistici.
Da anni la massima serie italiana sembra condannata a un purgatorio logorante, che per alcuni club diventa inferno. Una graticola dove bruciano i sogni di una rinascita sotto il segno degli emigranti Bargnani-Belinelli-Gallinari-Datome, volati in Nba per meriti sportivi. Scomparsi anche gli ultimi presidenti mecenati, la crisi economica grava su uno sport che nel Belpaese galleggia senza certezze. Gli sponsor pesanti sono fuggiti: industrie e marchi che utilizzarono il basket come volano oggi non ci pensano più a investire in uno sport senza appeal, con pochi margini e mediaticamente afono. Spesso si è costretti a fare le nozze coi fichi secchi: si bussa alle porte delle aziende nelle zone industriali delle province oppure lanciando sottoscrizioni tra i tifosi. Nella gran parte dei casi la programmazione economico-sportiva delle squadre si ferma a dodici mesi, ventiquattro se si è fortunati. Breve respiro, zero lungimiranza, colpa dei soldi. E allora si chiamano i giovani americani “mercenari”, quelli che fanno una stagione e poi volano verso lidi migliori «e tu non fai in tempo ad affezionarti». Il ricambio è serrato, gli spogliatoi non si cementificano mentre i vivai arrancano. A sovrintendere la Federazione è tornato un “riservista” come Gianni Petrucci, ex capo del Coni e già presidente della F.i.p. dal 1992 al 1996 dopo esserne stato segretario generale dal 1977 al 1985.
A microfoni spenti il membro di uno staff tecnico di un noto club di serie A si sfoga con Linkiesta: «Lavorando tutti i giorni, la sensazione è che questo sport in Italia non abbia futuro, non si vede un orizzonte». Mancano i soldi, quindi tutto il resto: «Si vive alla giornata, non abbiamo neanche un furgone per portare attrezzature e divise, il pullman per i giocatori è in affitto da un’altra azienda, le risorse sono all’osso». Il basket non fa notizia nè pare smuovere il ventre delle istituzioni, eppure la cronaca dei partecipanti al massimo campionato italiano è un bollettino di guerra. Dopo nove anni di serie A, nel 2012 è scomparsa la Teramo Basket inghiottita da debiti e inchieste della magistratura su un giro di false fatture per le sponsorizzazioni. Oggi le indagini proseguono mentre sul piatto ci sarebbero due milioni di euro da rendere all’erario. Pochi chilometri più a nord, Montegranaro non paga gli stipendi da cinque mesi e il capitano Daniele Cinciarini allarga le braccia: «Non prendiamo un soldo, ma ormai non ci interessa più nulla, giochiamo per salvarci e per chi ci ama davvero».
Pane, amore e fantasia non sono bastati a Treviso, sparita dalla serie A dopo il disimpegno della famiglia Benetton che per anni sborsò milioni e costruì il palasport mettendo il sigillo su campioni e vittorie. Adesso i biancoverdi sono ripartiti dalle serie minori, stessa trafila cui è stata costretta la Fortitudo Bologna, nobildonna decaduta per debiti e ripartita dai dilettanti: oggi, nonostante tutto, al palasport si registra una media di 4.000 spettatori. In un’altra piazza scudettata come Pesaro, dopo trent’anni di laute sponsorizzazioni, il patron delle cucine Valter Scavolini ha smesso di (ri)metterci i soldi restando semplice consorziato della nuova compagine che detiene le quote della società, nessuno però si è fatto avanti per sostituirlo e in riva all’Adriatico il basket trema, perché il futuro non è scontato nemmeno qui dove per la vittoria dello scudetto 1988 fu allestita una maxitavolata lunga tre chilometri. A Roma è dovuta intervenire Acea, colosso multiutility di acqua, energia e ambiente partecipato al 51% dal Comune di Roma e da alcuni anni main sponsor della squadra, con il patron del club Claudio Toti che ha prefigurato una sua uscita di scena chiedendo invano l’avvicendamento con altri imprenditori. Amaro il destino per il club capitolino, che nella scorsa stagione sfiorava lo scudetto e poco dopo si è vista costretta a rinunciare alla partecipazione all’Eurolega (la Champions del basket) per mancanza di budget.
Voli pindarici. Si accarezza l’impresa e poi si torna coi piedi sul parquet di palazzetti che in molti casi sono vecchi e inadeguati o, peggio, poco più grandi di palestre scolastiche. Sul futuro della palla a spicchi pesa pure il crollo dell’appeal mediatico: se il sistema dei diritti tv nel calcio mantiene i club, qui invece arranca. Fino al 2011 Sky aveva nel suo portafoglio i diritti del basket, poi ha scelto di mollare l’affare e tenersi solo l’Nba. Allora ci ha provato La7 puntando su partite, approfondimenti e opinionisti di rango, ma è stato flop d’ascolti e in poco tempo le dirette vennero dirottate sul canale cadetto La7d. Oggi oltre alle tv locali ci sono le telecamere di mamma Rai Sport, ma latita una base mediatica in grado di fidelizzare e sedurre pubblico oltre il bacino consolidato. Intanto Petrucci annuncia: «Seguiremo l’esempio della Federtennis e del suo bravo presidente Binaghi con il lancio di un nostro canale tv». Il riferimento è a SuperTennis, emittente gravida di polemiche per gli alti costi e le accuse di familismo con l’editore che fino a poche settimane fa era lo zio di Binaghi. Tornando al basket, il problema per sponsor e media è il ritorno d’immagine sempre minore: gli investimenti spesso rischiano di diventare a fondo perduto o trasformarsi in “beneficenza” al territorio di appartenenza. Il circuito della pallacanestro resta quello dei tifosi fedeli al botteghino, pronti a riempire i palasport ma vincolati a una dimensione provinciale che non permette di ricreare brand forti. Di Giorgio Armani ce n’è uno e sta a Milano, isola felice di basket e milioni. Altrove si lotta al ribasso col rischio di uccidere la storia, quella sì gloriosa, di uno sport abbandonato a se stesso.