Dani Alves è un eroe dei diritti civili, il nuovo Mandela, facciamoci tutti la foto con la banana. Anzi, contrordine: Dani Alves è un truffatore, era tutto un inghippo, anzi una trovata di marketing, orrore.
Quando i sociologhi del futuro studieranno gli effetti di Twitter sulla nostra psiche e sui nostri comportamenti collettivi, troveranno un ottimo caso di scuola in questo sorprendente ribaltamento di giudizio: quello che la Rete dà la Rete toglie, i social network abbattono e costruiscono miti, procedono per forti affermazioni o per altrettanto forti negazioni. E quindi, oggi, Dani Alves nella polvere, dopo che ieri era stato innalzato sugli altari. Ma è veramente così?
La storia di Dani e della sua banana, non era quello che sembrava prima, e non è quello che sembra ora: è prima di tutto la storia di due campioni, di due campioni di colore insultati su tutti i campi: i due sono anche uomini, e poi e compagni di squadra, e soprattutto amici. Due che invece di tirare il pallone in tribuna rabbiosi come farebbe Mario Balotelli, si mettono a immaginare a una risposta che lasci il segno (e ci riescono). Ovviamente non c’è nulla di male, in tutto questo: anche il pugno chiuso nel guanto nero di Tommy Smith, ovviamente, era stato pensato, non per questo era meno potente, o “vero” che se fosse stato improvvisato.
Uno dei due amici, Neymar, ha una agenzia di immagine che lavora per lui. Ovviamente non è un crimine, tranne che per i fanatici della rete, per gli accusatori seriali che vedono ombre e complotti in ogni dove.
Se giochi in una squadra come il Barcellona, e sei più famoso di una rockstar, perché non dovresti avere uno spin doctor o un ghost writer? Ce l’hanno i presidenti del consiglio, può averlo anche Neymar.
Sta di fatto che l’agenzia di marketing studia una campagna di marketing sul suo cliente prendendo spunto dal razzismo di cui è oggetto: comprano un dominio, progettano un sito, immaginano uno slogan accattivante, ironico e vagamente progressista, todosmacachos, “siamo tutti scimmie”. Da lì ai gadget, come le t-shirt il passo è breve. Anche in questo caso non ci sarebbe nulla di male: prendere spunti dall’imbecillità per affermare dei valori positivi, anche se ci si fanno dei soldi, non è un crimine, anzi. Solo che Neymar racconta tutto ad Alves, e Dani ci mette il suo tocco: sapendo della campagna gli viene una idea migliore. E quando gli lanciano una banana durante una partita (come previsto dall’agenzia) lui se la mangia, innescando sui social network la bomba atomica che sappiamo, con selfie in tutto il mondo dal tifoso anonimo a Prandelli e Renzi, alla “presidenta” brasiliana Dilma Roussef.
Il fatto che fosse stata programmata la campagna dei macachi, e che l’agenzia di Neymar abbia approfittato dell’occasione per attivare tifo e merchandising, dunque, non c’entra nulla con il gesto di Dani, se non marginalmente. Eppure alla Rete, e ai media, serviva un demone da inseguire. In questa lingua semplificata che si alimenta di negazioni e contrapposizioni, dopo essere stato santo, Dani dover per forza diventare un demone.
In realtà non ci sarebbe nulla di male anche se Dani avesse programmato tutto, o se la banana l’avesse mangiata Neymar. Credo piuttosto che l’unica operazione di marketing l’abbia fatta l’agenzia di comunicazione, che si é vista stravolgere il piano, e che ha voluto comunque infilarsi nella scia di una enorme promozione rivendicando la paternità.
Quanto al vero e al falso, ogni volta che sono in gioco grandi simboli, la differenza si fa sempre più labile e sottile. Negli anni abbiamo scoperto che il miliziano della guerra di Spagna fotografato da Robert Capa forse non era morto, che la foto della bandiera rossa sul Reichstag è stata ritoccata, che quella di Iwo Jima scattata da Joe Roaenthal era addirittura posata, che la Marianna del sessantotto francese era una aristocratica fotografata per caso, ci sono saggi storici secondo cui per Guernica Picasso si sarebbe ispirato ad alcune foto pubblicate su di una rivista (cosa ci sia di male non si capisce), tutti pensano che The Wall dei Pink Floyd fosse un disco dedicato al muro di Berlino, invece era una metafora esistenziale (ma il falso era così utile, che lo stesso Roger Waters, poi, ha suonato quelle canzoni in un concerto a Berlino).
Quando un gesto diventa mitografia, non appartiene più al suo autore, ma al suo tempo. Non ha bisogno di essere spontanea, per diventare “vera”. Bisognerebbe spiegare ai complottisti della Rete che spesso è l’intenzione del falso che produce l’epifania del vero.