C’è una vicenda ormai sepolta sotto i faldoni del palazzo di Giustizia di Milano che vale la pena di rispolverare per raccontare lo scontro in corso tra il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il Capo Edmondo Bruti Liberati, con il primo che ha portato il secondo di fronte al Csm per «vizi di formalità» nella gestione della procura e nell’assegnazione delle inchieste. È la storia di Piero Pajardi, ex capo della Corte d’appello milanese negli anni ’80, magistrato cattolico, vicino alla corrente centrista di Unicost, ma sostenitore della laicità politica delle toghe, detronizzato proprio da Bruti e da Magistratura Democratica all’inizio degli anni Novanta. Storie che s’intersecano con le continue faide delle toghe, che allora come oggi raccontano di un palazzo pieno di veleno più che di giustizia.
È una storia di certo differente da quella in corso in questi giorni al Palazzaccio. All’epoca eravamo nel pieno di Tangentopoli, tra lo scandalo della maxi-tangente Enimont e le vecchie inchieste sul Banco Ambrosiano di Roberto Calvi che avevano travolto l’ingegner Carlo De Benedetti. Eppure, tra sfumature diverse, appare a tratti molto simile, con Bruti Liberati questa volta nella veste di Robledo, negli attacchi per l’assegnazione di certe indagini, nelle critiche per la concentrazione di potere nelle mani di pochi giudici, per di più nel pieno di una campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Superiore della magistratura, proprio come sta succedendo oggi.
Il racconto inizia con un’indagine su Diego Curtò, all’epoca presidente vicario del tribunale. Siamo sul finire dell’estate del 1993, settembre. Milano è già da un anno il centro del sisma giudiziario italiano. Da queste parti il pool di Mani Pulite sta ribaltando la politica come un calzino. Tremano Dc e Psi. Antonio Di Pietro è «un mito» sui quotidiani, con lui ci sono Francesco Saverio Borrelli, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Gerardo D’Ambrosio e Gherardo Colombo. Curtò la fece grossa, molto grossa. Da uomo di Stato «sbagliò», come si dice in gergo. S’intascò una mazzetta da 400mila franchi svizzeri per aiutare l’Enimont di Raul Gardini. Per questo reato di favoreggiamento pagò poi con il carcere. Ma in quel periodo così confuso per la politica e la magistratura, a pagare per questa storia di mazzette con incroci tra politica, magistrati e industriali, sarà pure Pajardi, che poi fu scagionato dalle accuse proprio dal Csm qualche mese più tardi.
Quando scoppia la “bomba Curtò” in tribunale a Milano, però, fu proprio Bruti Liberati a innescare la miccia delle polemiche e l’apertura della stagione di «toghe pulite». L’attuale numero uno delle procura lo fece attraverso un’intervista a Repubblica dove accusava Pajardi di essere lo sponsor di Curtò e di indagare proprio «su di lui». Non solo. Bruti Liberati spiegò al quotidiano di De Benedetti: «Nel tribunale di Milano s’è costituita una concentrazione di potere assolutamente anomala, che gestiva tutte le vicende economicamente rilevanti. È giusto chiedere al presidente della Corte d’appello cosa ha fatto in questi anni». Lamentele non dissimili da quelle mosse oggi da Robledo proprio a Bruti (“Un padrone” dice il pm napoletano) che è stato accusato di aver affidato a magistrati a lui più vicini, come Ilda Boccassini o Francesco Greco, inchieste delicate come quella su Ruby o su Sea, temporeggiando sull’iscrizione nel registro degli indagati di Roberto Formigoni.
La vicenda Pajardi non si esaurì solo con il caso Curtò. Al ministero di Grazia e Giustizia e al Csm misero sotto indagine il magistrato di Unicost anche per aver esercitato «presunte pressioni sui magistrati che decisero di mandare sotto processo Carlo De Benedetti per il crac del Banco Ambrosiano». Una storia strana che si aggiunge alle tante domande ancora senza risposta sull’Ambrosiano. Le accuse furono respinte al mittente dal presidente della Corte d’Appello, cosa poi confermata nel rapporto degli ispettori ministeriali: «Si devono ritenere escluse o almeno indimostrate – si legge nel documento dell’epoca – le segnalate intromissioni di Pajardi intese a condizionare il sereno e obiettivo esercizio delle funzioni giurisdizionali affidate ai magistrati, che con attribuzioni diverse e nei successivi gradi della fase istruttoria, hanno trattato il procedimento a carico di De Benedetti».
All’epoca la corrente di Magistratura Democratica era meno forte di adesso. Anzi, a guardare bene, la capitolazione di Pajardi fu il cosiddetto «tappo che salta», con l’avanzata della corrente di sinistra nelle stanze della procura meneghina. Dopo l’intervista a Repubblica di Bruti, a Milano arrivarono gli ispettori del Csm. Ne nacque appunto un’indagine persino al ministero di Grazia e Giustizia. Pajardi – che smentì fino all’ultimo le accuse su Curtò spiegando che si trattava di una battaglia ideologica contro un magistrato cattolico – chiese poi il trasferimento alla Corte di Cassazione.
A difenderlo furono in pochi. Tra questi si distinse Francesco Saverio Borrelli che intraprese un duro scontro proprio con Bruti Liberati. Borrelli parlò di «infamia», perché «il dovere di sorveglianza del presidente della Corte d’appello è scritto nella legge. Ma questo non vuol dire che debba leggere ogni provvedimento, ogni sentenza». Poi se ne andò anche lui. Pajardi, poi scagionato da ogni accusa, uscì da questa brutta storia svuotato nell’animo e nel fisico. Morì nel settembre del 1994. Gli amici del magistrato ricordano ancora oggi le parole del figlio Giorgio durante il funerale: «Un bravo papà. Lo sanno quei magistrati ed amici che ti hanno tradito portandoti al calvario di quest’ultimo anno e alla morte di croce. Per loro, lo so bene, chiederai il perdono di Dio».