C’è stata una sera, in una trattoria del Pigneto, che ho sollevato lo sguardo e notato la tettoia di vetroresina ondulata appoggiata ai tralicci di metallo arrugginito. Davanti a me erano passate qualcosa come sette portate, decine di litri di vino e qualche bottiglia di amaro. Intorno a me ci saranno state una ventina di persone che contribuivano con la caciara ad alimentare la sensazione di trovarmi a Roma, esattamente come dovrebbe sempre essere. Non è che io ci abbia pensato troppo sul momento, ma quell’immagine è rimasta lì, latente da qualche parte e pronta a scattare il giorno in cui avessi visto una foto di Raquel Welch che balla su un tavolo, sotto una tettoia del tutto simile alla mia. Posso immaginare le portate di cibo e bevande che hanno condotto a quel momento. È piuttosto improbabile che fuori da quella particolare trattoria ci fosse in effetti il Pigneto, ma non mi stupirebbe se mi dicessero che si trattava di Trastevere, Garbatella, forse addirittura Pietralata.
Poi è venuto il pomeriggio in cui, dovendo aspettare un ritardatario cronico dalle parti di piazza Navona, mi sono infilato nelle viette attorno alla piazzetta di Pasquino, per poi ritrovarmi tra i negozi dell’usato di via del Governo Vecchio. Ecco, questo ricordo è più vivido e so per certo di essermi immaginato un giovane Marcello Mastroianni camminare sui sampietrini in abito chiaro. Me lo ricordo precisamente perché, ogni volta che ci vado, per ricominciare a voler bene a Roma mi occorre un’intervento epifanico, qualcosa che mi faccia dimenticare del traffico, dei mezzi che non arrivano mai, della generica flemma così controproducente che chi è nato e cresciuto al Nord fatica non soltanto ad accettare, ma a comprendere fino in fondo. Insomma, mi serve qualcosa che mi restituisca Roma, che è così perché ha tutto il diritto di esserlo. Senza se e senza ma.
La dolce vita i romani mica l’avevano capita. Era qualcosa di astratto. Talmente lontana dalla vita vera, dai palazzoni affacciati sulle baracche, dal boom che si trasformava in automobili e televisori, dai soldati americani su via del Corso, dai turisti e dai pretini in nero con gli abiti svolazzanti che li facevano assomigliare a dei grossi corvi. Talmente diversa da tutto quello che i romani — e l’Italia in generale — conoscevano, da non essere credibile. Chi ha paragonato Sorrentino a Fellini in tempi recenti non è andato tanto lontano dall’impressione di sollevare il coperchio di un pentolone mefitico che deve aver colpito in piena faccia coloro che nel ’60 l’ha vista messa lì, in pellicola. La dolce vita non esisteva, poi però ha cominciato a esistere ed è stato uno spettacolo tale da impregnare con la sua esistenza i muri porosi dei quartieri vecchi e delle borgate, da rimanere per sempre nelle bancarelle sotto forma di fotografie “d’epoca”, decisamente troppo costose troppo costose ma ottime per fare da contraltare alle immagini dei papi, di storie di comparse che forse comparse non sono mai state, ma garzoni, ragazzetti dei bar, curiosi che sbucavano dalle transenne dei set, perdigiorno. E ora si vestono da centurioni e sorridono maligni ai turisti.
C’erano le osterie, le fotografie, i giornalisti che imparavano un mestiere che non era più propriamente il loro. Diventavano spioni, guardoni, rivenditori di storie altrui. Uscivano per andare a caccia e la loro savana era popolata da pachidermi decapottabili, da pantere in abito lungo e avvoltoi in completo. Esotici, americani.
C’è un’altra foto, in cui Franco Nero alza una mano delle dimensioni di un piccolo badile per fare ombra su Rino Barillari, che sembra aspettarsi un meteorite sulla schiena, che sembra volersi allontanare strisciando — me ne ricordo una simile, con Walter Chiari che insegue Tazio Secchiaroli, che poi sarebbe diventato Paparazzo e il resto è storia. Era un tempo di fotografie improvvisate, di cose messe insieme per provarci, senza averci pensato sopra più di tanto, ma che erano destinate a inaugurare un’epoca, assieme ad una professione.
Roma era un’altra Roma e il cinema era un’altro cinema. Forse non si aveva nemmeno la sensazione di fare niente di memorabile, e forse — è il caso di dirlo — di memorabile non si è fatto proprio niente ma, come accade spesso soprattutto parlando di spettacolo, a rendere le cose memorabili è stato solo lo sguardo incantato del tempo. Quella intorno alla dolce vita è una storia fatta di trattorie, non di discoteche, riempite di spogliarelli nordafricani nascosti da una discrezione mascherata da omertà. Che poi quando le cose sono venute a galla tutti si sono affrettati a negarle, a farsi vedere stupiti, ma probabilmente avrebbero voluto esserci anche loro lì in mezzo. A sentire, annusare, parlare e scaldarsi per un gesto accennato.
È banale e superfluo sottolineare quanto le cose siano cambiate, forse anche un po’ stupido. Non saprei dire se fosse meglio prima — a guardare le fotografie mi sembra così, ma sono sicuro che è soltanto una faccenda di persuasione momentanea — quando nessuno sapeva niente e nessuno ne voleva veramente sapere niente. Però adesso che tutti sanno tutto e che c’è bisogno che tutto sia misurato e calcolato al dettaglio, il pensiero di uscire e provarci, di dover magari scappare a un certo punto, di imbattersi in una realtà che non sia incanalata nella plastica rimasticata di un “evento”, ecco, adesso quei tempi mi sembrano infinitamente più sinceri. Forse per la loro manifesta ingenuità, forse perché c’era veramente qualcosa da inventarsi, forse perché era tutto lì, per le vie di Roma, a portata di mano.