Conversazione con lo chef migliore del mondo

Conversazione con lo chef migliore del mondo

Per alcuni René Redzepi — 36enne danese, di origini albanesi — è l’unico genio della cucina dopo che Ferran Adrià ha chiuso il locale in Costa Brava per scrivere Bullipedia (il “sapere assoluto della cucina”, sic). Per altri è un furbone che preparando brodi di betulla e licheni fritti riesce a farsi dare oltre 200 euro a testa, vini esclusi (per la cronaca, cari come l’oro ma a Copenhagen è normale). Per i new foodies è il solo cuoco capace di rendere buone formiche, licheni e grilli, per i tradizionalisti praticamente un nemico del piacere a tavola. E avanti così, tra sostenitori e detrattori che ritengono assurdo che per la terza volta in quattro anni il Noma sia considerato il numero uno di The World’s 50 Best Restaurants e sono certi che la Guida Rossa Michelin mai gli concederà le tre stelle. Del resto il piccolo René — lontanissimo dal prototipo del buon selvaggio — pur non gridando da Savonarola, ha aperto giusto dieci anni fa un nuovo fronte: come “profeta” indiscusso della New Nordic Cuisine (ferma al pesce affumicato e alle polpettine modello Ikea), è diventato il punto di riferimento per chi vede un futuro a tavola in cui vegetali — non verdurine, parliamo di vere cortecce — e insetti saranno attori principali. Non potevamo perdere l’occasione di incontrarlo, nel corso di un suo rapidissimo viaggio in Italia per ricevere un premio nel Roero.

Leggenda vuole che la sua cucina sia nata per merito di una tempesta perfetta: per tre giorni, lei e un gruppo di amici rimaneste bloccati in una capanna della Groenlandia e quindi doveste arrangiarvi mangiando la “natura” circostante. Esatto?
Più o meno [sorride]. Ricordo che stavo per aprire il ristorante ed ero alla ricerca di una precisa filosofia, ben sapendo che non aveva senso utilizzare le mie esperienze — quella al Bulli su tutte — per un menu classico, sullo stile dei migliori locali di Copenhagen, dove peraltro avevo lavorato. E pian piano ho capito che avevo una sola strada: cambiare la materia prima, utilizzando tutto quanto offre il Nord Europa e lasciando perdere i prodotti, per quanto validi, importati. Salvo s’intende, il vino che però deve essere rigorosamente naturale altrimenti non entra nella cantina del Noma.

Da qui l’altra leggenda del Noma, il “foraging” al posto della tradizionale spesa al mercato o delle forniture del grossista.
Non è leggenda, ma necessità di rifornire quotidianamente la cucina connettendosi al mio territorio. Ogni mattina, quando il tempo è sopportabile, tre squadre di stagisti escono in bicicletta, guidate ciascuna da uno dei miei sous-chef e raggiungono la spiaggia, il bosco, il roseto per raccogliere il meglio che trovano. Poi tornano al Noma e si inizia a lavorare. Questa particolare spesa quotidiana è fantastica ma obbliga a saper preparare un sacco di piatti e ancora più a testarli: mediamente entra in carta quello che si salva da una trentina finiti nel cestino dell’umido.

Ci presenta in sintesi il Noma?
Volentieri. Lo troverete su un’isola artificiale [ndr, quella di Christianshavn], in mezzo ai canali, ospitato in un centro d’arte e cultura. Il locale è molto sobrio, con tanto legno e in quello stile che i mediterranei definiscono “nordico” [ride di gusto]. Siamo chiusi domenica e lunedì, serviamo lo stesso menu a pranzo e cena: solo in degustazione, non si può scegliere alla carta. Una ventina di portate o poco più, per un prezzo di 1.600 corone che diventano 2.600 abbinando i vini [siamo sui 350 euro complessivi]. Dal 2010, i tempi di attesa sono diventati lunghissimi — sei mesi circa — e si prenota solo online: mi spiace per i clienti, ma al tempo stesso sono felice perché vuol dire che sono pronti ad aspettare tanto per scoprire il Noma. Per i vari piatti utilizziamo erbe, fiori, radici, muschi, licheni, cereali, legumi, ortaggi, alghe, pesci, crostacei, animali di terra e insetti. Basta?

Perfetto. Come funziona la cucina?
Lo staff è composto da una cinquantina di persone. Metà dei cuochi lavora al piano superiore dove vengono eseguite le preparazioni lunghe dal production team — che di solito è formato dagli ultimi arrivati — più la mise en place per tutti i piatti delle varie sezioni. Sotto c’è la cucina vera e propria dove si ultimano i piatti: sono circa 900 a pranzo e altrettanti a cena. Gli stagisti non sono retribuiti ma molti hanno l’occasione, alla fine, di essere assunti.

Si dicono meraviglie del Nordic Food Lab, fondato nel 2008, proprio davanti al Noma.
L’ho creato insieme all’università di Copenaghen, sotto la supervisione del professor Michael Bom Frøst ed è finanziato da entiprivati e pubblici. Ci sono giovani cuochi da tutto il mondo, affiancati da botanici e biologi, che sostanzialmente investigano sulle nuove frontiere del cibo. I temi studiati sono i più svariati, molti redatti in modo scientifico, e le ricerche vengono pubblicate sul sito. È un supporto straordinario alla nostra cucina e in generale al mondo del wine & food.

Cosa ci dobbiamo aspettare di straordinario nei prossimi anni?
I risultati di un impegno enorme sul fronte della fermentazione, utilizzando lieviti, batteri e muffe sia selezionate che spontanee. Vorrei ricordare che vino, birra, caffè, pane, cioccolato — tanto per fare qualche nome — sono interessati dalla fermentazione e quindi c’è un mondo gigantesco su cui sappiamo ancora poco rispetto a quello vegetale [e qui per fare un esempio prende un bicchiere e una magnum di vino per spiegare l’ordine di grandezza]. Penso sarà un progresso per tutti.

Più o meno, la percentuale di vegetali nei piatti del Noma è l’80 per cento del totale. Va bene così?
Stiamo lavorando per arrivare al 100 per cento con la rimozione definitiva dal menu sia della carne che del pesce. È una sfida che non mi fa paura. Il nostro grande tallone d’Achille è il luuungo [lo dice così cinque volte di fila] e buio inverno della Danimarca. Per avere, in questa stagione, un menù di soli vegetali occorre avere quelle possibilità e capacità che ancora non possediamo. Ecco perché mi aspetto moltissimo dal Nordic Food Lab: per superare la stagione rigida occorre infatti prolungare, sviluppare la vita e gli aromi degli alimenti commestibili. In quanto tempo intendo arrivarci? Non so, credo che la strada sia lunga, ma sicuramente prima dei miei 50 anni.

Parliamo delle formiche: il cibo più “mediatico” della sua rivoluzione.
Esatto, perché in realtà sono solo una minima parte di quanto avevo in mente e realizzo oggi al Noma. Il primo che me le fece assaggiare fu il mio amico e collega brasiliano Alex Atala. Restai basito da quel sapore di citronella e decisi di ragionarci sopra, già sapevo che le uova di formica sono un cibo che milioni di sudamericani apprezzano da secoli e, per la cronaca, non costano poco. Poi ho deciso di utilizzarle per dei piatti veri e propri: il più noto prevede che siano servite vive su una crema solida di yogurt, segale e nocciole.

Saprà che tanti pensano sia una trovata e non un’idea seria.
Bisogna avere una visione aperta, nella vita e nella cucina. So che ognuno di noi ha la sua memoria del cibo, le sue abitudini: proprio due sere fa, al Noma, avevo ospiti da dodici Nazioni e ho raccolto giudizi diversi su questo o quel piatto. Un europeo resta sempre perplesso di fronte alle formiche. E io penso: noi siamo quelli che cucinano le lumache e le rane, solo un cuoco idiota può negare la superiorità in partenza di una bella tagliata di carne rispetto a un piatto di grilli. Io voglio regalare a chi viene a Copenhagen il meglio di quanto ho in cucina e riesco a preparare. E quindi il paté di grilli diventa ripieno delle foglie di acetosella che servo come appetizer con granita di nasturzio.

Si parla molto anche del garum di cavallette. Gli antichi Romani chiamavano così la salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato che utilizzavano come condimento.
Questa è stata la conferma che solo il tempo consente di fare le cose per bene. Quando affrontammo il tema, i primi risultati furono disgustosi. Poi, a forza di provare, abbiamo trovato che una ricetta su tutte dava – in sei mesi – una salsa che entra in vari piatti, composta da orzo, sale, larve di scarabeo e appunto cavallette. È meraviglioso scoprire come ricavare il meglio da ogni prodotto sulla terra, per chi gravita intorno al Noma questo è l’obiettivo numero uno. Ben sapendo che è una maratona, non una gara di sprint. Ma questo nulla toglie alla mia felicità personale.

La New Nordic Cuisine è una piccola grande eccezione nel panorama, essenzialmente grazie a lei. Ma in giro per il mondo cosa la sta colpendo di più?
Senza dubbio la crescita dell’America Latina, che proprio come l’Europa ha cucine molto diverse da un Paese all’altro. C’è fermento, si parla molto del Brasile e del Perù ma il gigante addormentato per me è il Messico: diventerà grandissimo. Comunque, se posso, vorrei sottolineare che si mangia bene in ogni nazione, se sai scegliere il posto giusto. Ma in Italia è più facile. Perché la tradizione è declinata al top nei locali dei grandi chef come in quelli familiari

Conosce la famosa massima di Ludwig Feuebarch: “L’uomo è ciò che mangia”? Quindi, chi si siede al Noma che uomo è?
Un uomo che mangia rispettando la natura. Molti sono perplessi o proprio mi criticano per la mia scelta ideologica, che andrebbe a discapito del piacere culinario. Intanto per prima cosa li invito al Noma dove la brigata di cucina, me compreso, esce in sala per spiegare ogni piatto, dalla ricerca degli elementi alle tecniche di preparazione. E comunque per me, la cena ideale sarà sempre quella dove sono conscio che ho causato il minore impatto possibile sul pianeta. Se vogliamo che continui a procurarci il cibo, noi dobbiamo aiutarlo.

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