La Milano di Enzo Jannacci

La Milano di Enzo Jannacci

Enzo Jannacci ha imparato a conoscere Milano dalla prospettiva periferica di via Sismondi, a Lambrate, dove, come racconta suo figlio Paolo, «i treni rallentavano ed Enzo, assieme a altri come lui, saltava sui vagoni per rubare munizioni». La sua casa era all’angolo con piazza Adigrat, dove abitava Beppe Viola, di quattro anni più grande. Erano entrambi figli dell’aviazione: il padre di Beppe faceva il marconista e quello di Enzo era un pilota di origine pugliese che aveva combattuto nella Resistenza, un’esperienza che ispirerà al figlio canzoni come Sei minuti all’alba.

Quando i due bambini si conobbero, Milano era in parte macerie e in parte ancora periferia, la stessa periferia che, dieci minuti a piedi lungo viale Argonne, si ritrovava nel quartiere Ortica, quello del famoso palo “sguercio”. Il testo della canzone è di Walter Valdi, ma il ritratto di questa “mala” raffazzonata in stile I soliti ignoti, raccontata dal punto di vista del membro più sfigato della banda (il palo, appunto), il cui ruolo è oltretutto vanificato da impicci fisici non trascurabili, ha molto della poetica jannacciana, ironica e insieme simpatetica nei confronti di tutti i poveri cristi che si arrabattano ai margini della Milano del boom economico.

A suo figlio, il musicista Paolo Jannacci, è stato chiesto più volte dell’importanza che ha rivestito il capoluogo lombardo per il lavoro del padre. E la sua risposta è sempre molto chiara: Milano è stata fondamentale. Come punto di partenza e come teatro ideale per osservare e far agire la miriade di personaggi picareschi delle sue canzoni. Soprattutto quella Milano degli anni ’60 e ’70, quella dei quartieri popolari, delle case di ringhiera, degli artisti squattrinati e dei deliquentelli un po’ balordi e un po’ eroi. Una Milano «sporca ma autentica» per usare una combo un po’ trita, che però fa breccia su chi soffre della sindrome dell’ubi sunt. D’altra parte, quando si parla della Milano di Jannacci, un po’ di nostalgia bisogna concedersela.

E La Milano di Enzo Jannacci è proprio il titolo del primo album in studio, del 1964. Dodici tracce, per lo più in milanese, tra cui la ballata El portava i scarp del tennis, due brani con testo di Dario Fo e una reinterpretazione di Ma mi, l’unica canzone mai scritta da Giorgio Strehler. Sul retro della copertina, una nota di Luciano Bianciardi, che aveva avuto modo di apprezzare il cantante in una sua esibizione al Teatro Gerolamo. Riguardo al loro rapporto – a cui, tra le altre cose, dedica spazio Andrea Pedrinelli nel suo Roba minima (mica tanto) –, Jannacci racconta che, nonostante fosse poco più che un ragazzino, Bianciardi lo interpellava spesso per conoscere le sue opinioni sui cosiddetti massimi sistemi: «Mi chiedeva: “Jannaccione, cosa ne pensi del mondo?”, e io rispondevo che ne pensavo malissimo. Fingono tutti, abbiamo perso la guerra, siamo poveri e nessuno lo dice. Tutta la mia produzione pseudopoetica parla di un Paese che fa finta di essere ricco e colto ma non pensa, non legge, non capisce».

L’anno successivo Bianciardi cura addirittura uno speciale RAI su Enzo, una via di mezzo tra reportage e fiction, in cui lo scrittore affronta anche la questione della “geografia poetica” di Jannacci. «Perché vede», dice rivolto a un attore, «lo Jannacci è un milanese tipico, cioè è figlio di meridionali ed è cresciuto in questa città che sta, come lei sa benissimo, al centro del triangolo scarpario Varese, Vigevano, Tradate. Ecco perché l’attenzione dello Jannacci si punta tanto spesso sulle scarpe, sui piedi». Feticismo a parte, il loro rapporto proseguirà, e nel ’69 Luciano inserirà Enzo tra i personaggi del romanzo Aprire il fuoco, storia di un’immaginaria insurrezione milanese del 1959 (lo si può riconoscere nel capofila degli “insorti di Linate”). Già nel ’64 però Jannacci aveva prestato volto e voce per la trasposizione cinematografica de La vita agra, interpretando L’ombrello di suo fratello dentro il bar Jamaica, nella Brera degli artisti e dei cospiratori.

Jannacci non amava particolarmente il cinema, ma il cinema amava corteggiarlo, e più di una volta il musicista ha ceduto alle avance. Come nel 1972, quando recitò nel film L’udienza di Marco Ferreri o come l’esperienza di Romanzo popolare (1974) di Mario Monicelli, di cui lui e Beppe Viola curarono i dialoghi in milanese. Nel film Jannacci canta Vincenzina e la fabbrica, scritta sempre con Beppe Viola: questa volta è la Milano della nebbia e degli opifici – nel film, guarda caso, la fabbrica scelta per le riprese esterne è proprio la ex Innocenti di Lambrate –. È una canzone che, si compiace Jannacci, non può essere fraintesa, come invece gli era spesso capitato durante la carriera, quando i suoi brani venivano bollati come innocui divertissement.

Non è ciò che è accaduto nel ’68, alla dodicesima edizione di Canzonissima. Jannacci è in finale, vorrebbe esibirsi con Ho visto un re nello scontro diretto contro Gianni Morandi, ma la RAI si oppone definendola «troppo politica e polemica» e lui è costretto a ripiegare su Gli zingari. Ma se il popolo degli ultimi per antonomasia è una tappa quasi obbligata per i cantori dei reietti – ne sa qualcosa anche De André –, tirarlo in ballo in una competizione televisiva contro un ragazzetto dalla faccia pulita che canta «Scende la pioggia ma che far… per amore sto morendo», può rivelarsi un autogol.

La delusione è talmente grande da indurre Jannacci a cambiare radicalmente aria, trasferendosi per quattro anni, a periodi alterni, in Sudafrica prima e negli Stati Uniti poi, per ultimare i propri studi di medicina, collaborando anche con il celebre cardiologo Christiaan Barnard, artefice del primo trapianto di cuore della storia della medicina.

Ma Enzo non può stare separato a lungo dalla sua Milano, la Milano delle periferie di Gigi Lamera «che abitava dietro a Baggio» e del tizio che andava a Rogoredo e «cercava i suoi danée», ma anche la Milano notturna e scintillante del cabaret, del Santa Tecla e del Derby Club, quella di Giorgio Gaber,

Bruno Lauzi, Adriano Celentano, Cochi e Renato e Paolo Conte, con il quale firma Messico e nuvole.

 https://www.youtube.com/embed/e7eZXmZ6rWk/?rel=0&enablejsapi=1&autoplay=0&hl=it-IT 

Il Derby era nato come ristorante alla fine degli anni cinquanta, su iniziativa degli zii materni di Diego Abatantuono. Nel ’62 era poi diventato un locale di musica dal vivo e cabaret, l’Intra Derby Club, in omaggio al direttore d’orchestra e jazzista Enrico Intra. In quel locale vicino all’Ippodromo, ora occupato dal centro sociale Cantiere, aveva modo di esibirsi una comicità che sui media dell’epoca non trovava spazio, e infatti la crisi per il locale arrivò quando verso la metà degli anni ottanta ci fu la grande esplosione della comicità televisiva. Ma allora era tutto lanterne e lustrini: lo frequentavano Ugo Tognazzi, Gabriella Ferri, Johnny Dorelli, Marcello Mastroianni e anche qualche malavitoso celebre, come Francis Turatello o Luciano Lutring, il solista del mitra, che era solito bere «uno champagnino» per poi uscirsene dalla finestra, per via delle frequenti improvvisate della polizia.

«Un’altra zona fondamentale», spiega Paolo Jannacci, che alla topografia delle canzoni del padre ha dedicato molto spazio nella biografia Aspettando al semaforo, «è stata quella di piazza Beccaria, verso la Galleria, dove stazionavano i musicisti senza contratto. In attesa che qualcuno venisse a chiamarli ogni tanto andavano a prendere aperitivi al Tre Gazzelle».

Anche il centro, dunque. Piazza Beccaria, piantonata dal magnaccia di T’ho comprà i calzett de seda, e naturalmente piazza Duomo, che per raggiungerla «ghe veuren dù tramm». Il duomo di Milano è anche una canzone di Enzo che parla di un funerale: «Il duomo di Milano è pieno di acqua piovana, ce l’han portata con gli ombrelli, ce l’han portata con i pianti per la redenzione delle puttane». È una città liquida e malinconica quella descritta, e in effetti all’«elemento liquido» di Milano – l’Idroscalo e i Navigli – Jannacci è particolarmente affezionato, ci chiacchiera addirittura. Infatti c’è una canzone – più che altro un monologo – che si intitola proprio Parlare col liquido, da cui emerge che se ci si ferma a orinare in compagnia e ti senti fissato dagli «occhi piccoli» di una Seicento la cosa migliore da fare è parlare col Naviglio, anche se in linea di massima l’Idroscalo è un interlocutore migliore.

Insomma, tutta questa manfrina, che cerca di dare qualche spunto per una sorta di mappa della topografia jannaccesca, è per dire ai milanesi che se oggi, nel giorno del compleanno di Enzo, mossi da nostalgia o da orgoglio autoctono avessero voglia di ricordarlo un po’, un modo brutto sarebbe riguardare lo speciale di Fabio Fazio, mentre un modo bello sarebbe fare un giro per Milano, anche se adesso l’alta moda ha preso il posto delle sartine e il ristorante Giggi Fazi di piazza Risorgimento, per molti anni mitico santuario della cucina romana in città, è stato sostituito da un anonimo locale alla moda. Un giro che per i più languidi è da fare rigorosamente in vespa. Rigorosamente scassata.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter