Riuso degli edifici, così si “sblocca” l’Italia

Riuso degli edifici, così si “sblocca” l’Italia

«Individuate una caserma bloccata, un immobile abbandonato, un cantiere fermo, un procedimento amministrativo da accelerare». Così si “sblocca” l’Italia, ha scritto Matteo Renzi in una lettera indirizzata ai sindaci. E allora siamo andati a cercare, dal Nord al Sud della penisola, esempi di strutture abbandonate delle nostre periferie trasformate in qualcos’altro, spesso tra lungaggini burocratiche, ritardi e disfunzioni degli enti coinvolti. Giusto per capire cosa si può fare valorizzando quello che già abbiamo, senza necessità di costruire ancora e consumare altro suolo. E magari cosa si potrebbe fare con quello che ci resterà anche di Expo 2015.

A giugno 2012 era partito il cosiddetto Piano Città, con la selezione di 28 progetti per un intervento da 4,4 miliardi di euro complessivi, tra fondi pubblici e privati. E ora, dopo 72 anni, è pronta anche la prima bozza del governo sulla riforma urbanistica che, insieme alla legge sul consumo di suolo, dovrebbe tracciare il nuovo profilo dei nostri centri urbani. Allo stesso tempo, il Consiglio nazionale degli architetti, con l’Associazione dei costruttori edili (Ance) e Legambiente, ha lanciato l’acronimo R.i.u.so, ovvero Rigenerazione urbana sostenibile delle città. La materia sulla quale operare è tanta, vista la bruttezza delle nostre periferie. Anche perché, per esempio, il 45% dei soli edifici pubblici è stato realizzato prima del 1945 e il 60% delle abitazioni ha più di 40 anni. Gli edifici abbandonati, invece, secondo una stima di Legambiente, sarebbero oltre 5 milioni, senza dimenticare la condizione spesso disastrata dei borghi storici.

L’obiettivo, quindi, potrebbe essere quello di intervenire sul costruito invece che sui terreni liberi. «La riduzione progressiva del suolo consumato, per arrivare a zero nei prossimi trenta anni», ha scritto Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti, sulla rivista L’Architetto, «deve perciò obbligatoriamente e contemporaneamente incentivare il riuso delle aree urbanizzate, trasformando, densificando, demolendo e ricostruendo, investendo sugli spazi pubblici». E dal recupero di una sola struttura, spesso, può crescere il valore – anche immobiliare – di un intero quartiere. Economia messa in moto – con il coinvolgimento di un settore come l’edilizia che più di tutti sta soffrendo durante la crisi – che “accende” altra economia.

Cantieri teatrali Koreja di Lecce
Come è accaduto nel quartiere Borgo Pace di Lecce, dove sorgeva una grande fabbrica di mattoni su una superficie di 3mila metri quadri. A fine anni Novanta la fabbrica si trasferisce nell’area industriale della città e la struttura resta abbandonata. Era il 1997, la compagnia teatrale Koreja, che cercava una sede nella città salentina, mette gli occhi sulla struttura abbandonata, un luogo composito, con spazi all’aperto e al chiuso. «Così abbiamo fatto un mutuo», racconta Anna Petrachi dall’amministrazione, «e abbiamo acquistato la struttura, per un costo di circa 300 milioni delle vecchie lire». Un architetto esperto nella gestione di spazi teatrali si è occupato della trasformazione dei luoghi che prima ospitavano i mattoni. All’interno dei capannoni sono stati ricavati un teatro con 220 posti, una sala prove di 150 metri quadri, un laboratorio di 250 metri quadri, un foyer per mostre e convegni, una biblioteca, una videoteca, una mensa e gli uffici. E nel 2000 la struttura ha ottenuto la regolare agibilità. Anche se, dice Anna Petrachi, «c’è un continuo lavoro di riallestimento e di ripensamento degli spazi in cui si svolgono le attività».

«Individuate una caserma bloccata, un immobile abbandonato, un cantiere fermo, un procedimento amministrativo da accelerare»

L’ex fabbrica si è trasformata così in un “cantiere teatrale”, con una stagione tutta sua, “Strade maestre”, ma anche laboratori di danza, musica, arti performative e figurative. Essendo un teatro stabile, il 50% delle attività viene finanziato dal pubblico, dal ministero della Cultura e dalla Regione Puglia, mentre l’altro 50% è coperto dall’attività privata. E tutto il quartiere intorno è rinato. «Prima era un dormitorio, quando siamo arrivati era piena periferia, con tutti questi palazzacci degli anni Settanta e solo un piccolo negozio di alimentari e una carrozzeria», racconta Anna Petrachi. «Dopo il nostro arrivo, tutto intorno si è trasformato. Qui arrivano molte compagnie dall’estero, c’è un continuo afflusso di gente che segue le nostre attività. Così sono sorti intorno due hotel e sono spuntati diversi negozi. E anche il valore immobiliare della zona è cresciuto. Borgo Pace non è più in pace, appunto». Proprio lì accanto un’altra struttura, la manifattura tabacchi, ha da poco chiuso i battenti dopo due secoli di storia. E aspetta di rinascere a nuova vita. Come è già accaduto a Lecce per le Manifatture Knos, una vecchia scuola di formazione per operai metalmeccanici abbandonata da anni che la Provincia di Lecce ha affidato all’associazione culturale Sud Est, e le Officine Cantelmo, che da luogo per la lavorazione del ferro sono state trasformate in uno dei punti di riferimento della movida leccese.

Centro Zo di Catania
Sempre nel Meridione, altro esempio degno di nota è il centro Zo di Catania per le arti e le culture contemporanee, realizzato all’interno di una ex raffineria dove veniva lavorato lo zolfo proveniente dalle miniere dell’entroterra siciliano. Nel 1997 un gruppo di giovani operatori culturali catanesi fonda la cooperativa Officine e accede ai finanziamenti pubblici della legge 236 per l’imprenditoria giovanile, che incentiva il ripristino e la fruizione di beni culturali, e inizia le trattative con il Comune di Catania per l’utilizzo dell’immobile. L’allora Invitalia, oggi Sviluppo Italia, finanzia il progetto culturale della cooperativa e i lavori d restauro della raffineria. Il Comune di Catania, come proprietario dell’immobile, concede l’uso della gestione del complesso industriale restaurato. E nel 2001 Zo apre le sue porte. Dagli spazi della raffineria sono nati una sala polifunzionale di 300 metri quadri con una tribuna da 250 posti, un’altra sala per i corsi e i laboratori di danza, una caffetteria e un Internet point con una raccolta di riviste specializzate d’arte e cultura. Così l’area delle ex raffinerie, nel cuore della città, negli ultimi anni si è sviluppata diventando un punto di riferimento della vita della città.

Ognuno si è ristrutturato la sua piccola parte, il mattatoio è diventato un insieme di enclave

Ex mattatoio di Testaccio
Risalendo verso la Capitale, uno dei maggiori esempi di riuso è l’ex mattatoio del quartiere Testaccio, una struttura che sorge su una superficie di oltre 100mila metri quadri sorta nel 1880. Qui venivano uccisi e macellati maiali, mucche, capre e pecore. Fino al 1978, quando il Mattatoio viene chiuso, e da lì parte il dibattito su cosa farne, soprattutto tra i primi grandi pensatori della rigenerazione dell’archeologia industriale, Giulio Argan in testa. A fine anni Novanta la giunta Rutelli prende in mano il progetto. «Si stabilisce», racconta l’architetto Paolo Orsini, che ha partecipato con il suo studio a parte della ristrutturazione degli edifici, «di assegnare il mattatoio a diversi soggetti, per farne un centro di produzione culturale». Gli attori coinvolti sono il Comune di Roma, proprietario dell’immobile, l’Università Roma Tre e l’Accademia di Belle arti. Fin qui tutto bello: l’università ha realizzato buona parte delle opere, spostando nell’ex mattatoio la sua facoltà di architettura, l’accademia invece si è insediata solo di recente, e nella zona del Campo Boario è nata anche la “Città dell’altra economia”, con un centro di cultura curda e la “Città della pace” gestita da palestinesi. A questi si aggiungono il centro sociale Villaggio globale, la Pelanda e la scuola di musica. «Quello che manca però», dice Orsini, «è una regia e una progettazione concettuale complessiva della struttura. Gli stessi dipartimenti del Comune che gestiscono lo spazio non si parlano tra loro». Così il risultato è che ognuno si è ristrutturato la sua piccola parte, il mattatoio è diventato un insieme di enclave, «ma tra uno spazio e l’altro si passa attraverso spazi degradatissimi. La stessa “Città dell’altra economia” ha una gestione da centro sociale. E ognuno appena può recinge i suoi spazi, come ha fatto l’università». L’80% degli spazi aperti a oggi è recintato o inaccessibile. L’esperimento, insomma, è riuscito ma solo a metà, «nonostante un investimento pubblico complessivo che si aggira intorno ai 45 milioni di euro».

Una gestione “a spezzatino”, come dice Orsini, con l’assessorato alle Periferie che gestisce una parte della Città dell’altra economia, dividendosela con l’assessorato alla Cultura, l’assessorato all’Urbanistica che gestisce solo le trasformazioni fisiche ma non i progetti, e il municipio che sa poco o niente di quello che accade nelle strutture. Così vengono fuori casi come quello della Pelanda, la parte del mattatoio in cui si pelavano i suini: «Il progetto iniziale era quello di farne un centro di produzione culturale, tanto che dentro ci sono teatri e sale di posa», racconta Orsini, «solo questo progetto, affidato a un bravo architetto come Massimo Carmassi, è costato 12 milioni di euro, ma non ha mai effettivamente funzionato. Lì è stata anche creata la sede raddoppiata del Macro (Museo d’arte contemporanea a Roma, ndr) di via Nizza, ma non ci sono mai mostre degne di nota. Ora, ad esempio, è in corso una mostra sulla squadra della Roma».

E il quartiere come reagisce? «Il quartiere non lo usa, non lo conosce neanche così bene, viene vissuto ancora come un luogo di degrado», risponde Orsini. Tanto che «anche il valore immobiliare intorno non è cresciuto con lo sviluppo della nuova offerta culturale». Anche perché sui muri dell’ex Mattatoio si sono consumate veri e proprie lotte politiche. Come quando «Gianni Alemanno ha a perto un padiglione per farci il farmer market, che sì attirò molta gente al Mattatoio, ma a danno del mercatino della Città dell’altra economia gestita da cooperative di sinistra, che lo stesso Comune finanziava». I diversi attori coinvolti non parlano tra di loro e il Mattatoio non decolla, quindi, «perché manca ancora un vero progetto di qualità, per cui non è affatto evidente il ritorno dell’investimento economico pubblico in attività e servizi a disposizione della comunità né in termini di utenti che ne usufruiscono né in posti di lavoro né in crescita del valore immobiliare del quartiere intorno».

La Fabbrica del Vapore
Una storia simile è quella della Fabbrica del Vapore di Milano, spazio di 2.600 metri quadri alle spalle della China Town della città. Una zona cerniera tra il centro e la periferia, tra italiani e cinesi. La struttura spicca tra il cimitero monumentale, altri edifici di archeologia industriale e i palazzi residenziali della zona, dove tra poco sorgerà anche la nuova cittadella della Fondazione Feltrinelli. La Fabbrica del Vapore, nata nel 1899, all’inizio si chiamava Carminatti Toselli e si occupava della produzione di materiali per i treni e i tram. All’epoca la zona era prevalentemente industriale e poco abitata, tanto che la fabbrica riuscì a espandersi molto dal punto di vista degli edifici e dei capannoni utilizzati. Fino a occupare 30mila metri quadri fra spazi coperti e spazi esterni.

L’attività della Carminatti Toselli continua fino agli anni Trenta. Poi in zona arrivano altre industrie, dal tessile al farmaceutico, che fanno interventi diversi sull’area. Il risultato è una stratificazione di archeologia industriale che è stata conservata quando la struttura è stata rigenerata. Nel 1985 l’amministrazione comunale stipula una convenzione con la Società Procaccini che prevede la cessione al Comune di tutta l’area, decidendo di valorizzare il luogo, di ristrutturarlo e farlo diventare un centro di sperimentazione culturale rivolto ai giovani. Si comincia così a pensare al progetto “Fabbrica del Vapore”, finché nel 2000 viene indetto un bando pubblico a cui partecipano centinaia di progetti, non solo italiani. Vengono selezionati 18 di questi progetti e comincia la ristrutturazione degli spazi. I lavori però si dilungano più del previsto e le ultime associazioni entrano nella struttura solo nel 2008. Ma bisognerà aspettare il 2011 per entrare in pieno nella gestione, anche economica, della struttura. «Ci sono state diverse lungaggini», racconta Claudio Grillone, architetto referente di Palazzo Marino per la struttura. «Del progetto si parlava già 25 anni fa, per poi concretizzarsi in un bando solo a fine anni Novanta. Sono stati dieci anni travagliati per Milano, tra varie giunte e commissari. Poi ci sono state altre lungaggini legate alla progettazione degli spazi, ai finanziamenti, ma anche al cambio nella normativa degli appalti degli appalti pubblici». Per la Cattedrale, per esempio, lo spazio centrale, l’impresa che aveva cominciato i lavori poi non li ha conclusi. E tutto è ripartito da capo. «Lungaggini minime», dice però Grillone, «ripsetto a casi come il Piccolo Teatro o l’Ansaldo, che è tuttora incompiuto». 

Le realtà che si sono insediate nella ex fabbrica, alla fine, sono state in tutto 13. Le altre, per via dei ritardi nei lavori, si sono ritirate. «Siamo entrati nella struttura quattro anni dopo aver vinto il bando», racconta Ariella Vidach, presidente della associazione FDVLab, che riunisce tutti e tredici i laboratori. E i soldi pubblici spesi sono stati in totale 25 milioni. Le attività, all’interno, vanno dalla musica al teatro, dall’arte alla produzione di video. Il Comune di Milano, invece, gestisce direttamente uno spazio di circa 240 metri quadri in cui ospita mostre, spettacoli di danza e incontri.

L’amministrazione comunale decide le linee progettuali, le finalità e gli obiettivi dell’intervento, ma ogni realtà all’interno della Fabbrica del vapore gestisce autonomamente le proprie attività e ognuna lavora nel suo ambito autofinanziandosi. Per alcuni progetti specifici, poi, si utilizzano fondi statali o europei, ma anche sponsor e investimenti di gruppi privati. «Le attività delle associazioni presenti», spiega Grillone, «sono testate a inizio e a fine anno. Loro hanno avuto quegli spazi su specifici progetti che coinvolgono o sono indirizzati ai giovani, e per questo vengono monitorati». Il Comune ha concesso gli spazi, che le associazioni pagano con una riduzione del 70% rispetto ai canoni di mercato, «ma ovviamente nel rispetto del progetto iniziale». 

Diverse realtà che operano nello stesso spazio, ma anche qui sembra mancare una progettazione comune. Lo scorso anno 300mila visitatori hanno visitato la Fabbrica del Vapore. Eppure la struttura dialoga poco con la città e soprattutto con il quartiere. Causa anche l’organico degli uffici del Comune «ridotto all’osso rispetto alle potenzialità e alle dimensioni. Tre anni fa eravamo in dodici, oggi siamo tre e mezzo». Così finisce che ogni laboratorio lavora per sé, «tranne per i progetti comuni durante il Salone del mobile, e ora stiamo pensando a una proposte collettiva in vista di Expo», racconta Vidach. «Abbiamo passato diversi assessorati, siamo stati attraversati da tante amministrazioni, ma nessuno ha mai dato una direzione univoca comune alla Fabbrica del vapore. E anche la città spesso non conosce quello che succede dentro». In tanti a Milano si chiedono addirittura se la struttura sia aperta al pubblico. «Le persone dovrebbero venire alla Fabbrica a prescindere da quello che si fa. Basterebbe un bar, un Internet point, una biblioteca comune che possa accogliere i giovani».

E poi c’è la burocrazia: l’amministrazione comunale gestisce gli edifici e le associazioni devono chiedere di volta in volta le autorizzazioni per occupare gli spazi di proprietà del Comune. Cosa che crea difficoltà nella pianificazione e nella programmazione delle attività. Oltre ai soliti ritardi: «Basti pensare che il bilancio dello scorso anno è stato approvato a dicembre», dice Vidach. Sono queste dinamiche che devono essere “sbloccate”.

“Non è solo una questione ecologica”

Gli esempi di riuso in tutta Italia sono tanti. A Torino, ad esempio, ne esistono diversi, dal Lingotto stesso alla trasformazione di una parte di Mirafiori in un polo di ricerca. E gli esempi da seguire in tutta Europa non mancano. Uno su tutti Les Frigos di Parigi, un enorme refrigeratore per la conservazione degli alimenti, in cui oggi si svolgono diverse attività legate al mondo dell’artigianato e della piccola impresa. 

L’organizzazione ambientalista Wwf nel 2013 ha raccolto le aree abbandonate italiane in un report chiamato “Riutilizziamo l’Italia”. Gli spazi censiti, tra edifici e aree dismesse, sono 575, di cui il 38% al Sud, il 33% nel Centro Italia e il 29% al Nord. Gran parte di queste strutture dismesse (67%) riguardano aree già edificate in precedenza sulle quali si potrebbe intervenire, sia di proprietà pubblica sia privata. «Un qualsiasi progetto che miri al recupero della parti compromesse e degradate non è solo un progetto ambientale ma anche economico», si legge nel rapporto. «Enormi sono le quantità di edifici, opere e in generale manufatti che costellano il nostro territorio e che non sono utilizzati od utilizzabili. Si tratta di recuperarli, riportarli a una nuova funzionalità, a una capacità produttiva utile per la collettività; oppure demolirli, eliminando il danno insito nella loro presenza e avviando così un’opera di rinaturalizzazione delle aree interessate». Non è solo una questione ecologica: «Operare sull’esistente, recuperare l’energia grigia, eliminare manufatti degradanti, ripristinare aree, ridare alla produzione edifici e parti di territorio è un progetto economico perché rimette alla comunità un patrimonio, anche economico, che attualmente è indisponibile e perché mette in moto un comparto, quello edilizio, che non può essere concentrato esclusivamente sulle nuove costruzioni. Non è più possibile, viste le condizioni di questo Paese e del pianeta tutto, costruire un metro cubo nuovo fin quando non sia stato utilizzato tutto quello che abbiamo già costruito e non si siano eliminati tutti gli sprechi ed i sovradimensionamenti prodotti».

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