Stabilizzare o assumere? Concorsi aperti o riservati? Questa domanda è riecheggiata in diversi dibattiti che riguardano la pubblica amministrazione e la scuola. In realtà è la domanda centrale della politica di spending review. Molto più grave dell’acquisto della famosa siringa a prezzo maggiorato è la nomina sbagliata di un medico, di un professore, o di un funzionario che impegnerà le risorse dei contribuenti per i prossimi trent’anni. Al di là comunque dei casi estremi, di un genio che perde a vantaggio di un incapace, è il caso di affrontare il tema senza pregiudizi, e senza il finale annunciato, ossia l’auspicio che il bravo prevalga sul mediocre. Del resto lo sport in questi giorni ci ha insegnato che i mediocri ben organizzati e allineati sono in grado di rispedire a casa i bravi. Che non sia meglio una bella squadra di mediocri anche nella pubblica amministrazione?
La questione dei concorsi aperti o chiusi è salita alla ribalta del dibattito in occasione del caso Consob, a proposito di progetti di stabilizzazione di risorse umane cooptate dall’esterno. Marco Onado in un articolo sul Sole 24 Ore del 7 giugno riportava un dibattito in tal senso al Festival dell’Economia di Trento.
Il tema, nel caso della Consob, è ovviamente di una delicatezza estrema. Scegliere i concorsi aperti significa infatti scegliere la concorrenza tra le risorse umane, e questa ha il fine di mettere la Consob in grado di affrontare un tipo di concorrenza di ben altra rilevanza: quella tra regolatori e regolati. Questa concorrenza è il problema centrale dei regolatori dei mercati finanziari di tutto il mondo, e in tutti i Paesi c’è un’eterna rincorsa dei regolatori ai regolati: i regolati possono pagare somme che i regolatori non possono neppure pensare. Eppure la Consob di Luigi Spaventa proprio su questo dettò l’esempio, progettando l’istituzione di quell’Ufficio analisi quantitative che poi venne realizzato sotto la presidenza Cardia, e che oggi è al centro del dibattito per il coinvolgimento della Consob nel caso Unipol-Fonsai e per la lotta intestina scatenata sotto la presidenza Vegas.
Quell’idea di Spaventa di far scendere la Consob in campo aperto nella competizione per le risorse l’ha portata a un ruolo da protagonista in campo europeo nella proposta di metodologie quantitative per la trasparenza dei mercati. Purtroppo a questo momento del film, il protagonista vive lo stesso dramma del protagonista De Niro in “Risvegli” di Oliver Sacks. La scarica di attivismo che la Consob ha vissuto in quegli anni viene sempre più rallentata e imbrigliata da anti-corpi interni e esterni, e soprattutto dal fatto che la sua attività è sconfessata dagli organi della sua testa. Emerge quindi una domanda che per me, che sto dalla parte dei quantitativi, suona retorica, ma che può non esserlo. Ha fatto bene Spaventa? È stata una buona idea illudere un corpo immobile della possibilità di un risveglio, se alla fine il ritorno all’immobilità pare ineluttabile?
È per questi motivi che la domanda del concorso aperto è importante. Onado la pone in maniera estremamente efficace dicendo che mentre all’estero c’è un problema delle “porte girevoli”, e cioè di passaggi troppo frequenti e troppo disinvolti tra il mestiere dei regolati e quello dei regolatori, in Italia viviamo oggi il problema opposto, ovvereo quello delle paratie stagne tra i due mondi. Fare concorsi aperti potrebbe quindi prolungare il risveglio del corpo anchilosato e dolente della Consob.
Ma c’è un altro settore della pubblica amministrazione che da sempre vive il dilemma dei concorsi aperti o chiusi, delle promozioni o del reclutamento, ed è quello dell’università. Su questo l’università ha lavorato per anni, ed ha escogitato soluzioni. Purtroppo, poiché le università non hanno un problema di concorrenza esterna, queste soluzioni sono state destinate a un obiettivo opposto di quello che vorrebbe chi paga le tasse: quello della difesa corporativa. Oggi nell’università gira una battuta: è un vero peccato che Renzi piè veloce sia sposato con una professoressa di liceo, invece che dell’università. Le sue attenzioni vanno così alla scuola media e superiore, mentre nell’università la vita scorre tranquilla più o meno come in: “Mad Max, oltre la sfera del tuono”. Potrebbe comunque piacere anche a chi è appassionato di Far West. Ma, anche in questo caso, dall’esterno sembra un mondo che si sta aprendo. Sembra che anche qui le porte girevoli comincino a funzionare. Recentemente l’Anvur ha riportato, tra le statistiche più incoraggianti e più riprese dalla stampa, che nelle recenti abilitazioni a professori di seconda e prima fascia una buona quota dei candidati abilitati vengono dalle porte girevoli, dal mondo esterno. Quasi la metà degli abilitati alla seconda fascia vengono dall’esterno e un quinto degli abilitati alla prima sono estranei all’università. Il messaggio dell’Anvur è chiaro: è apertura, è osmosi tra università e sistema produttivo.
La realtà invece è molto diversa, vista da chi vive nel Far West, ed è istruttivo raccontarla perché può essere di esempio (buono o cattivo) per altri settori della pubblica amministrazione. Procediamo con ordine, e vediamo il film dall’inizio. Chiedetevi: qual è il peggior incubo di un direttore di dipartimento o di scuola nell’università di oggi? Considerate di avere un ricercatore bravo, e di fare un concorso aperto. Ecco l’incubo: viene uno ancora più bravo, e se vince, vi trovate con due ricercatori bravi. Avere due bravi al posto di uno è una cosa che può togliere il sonno. Ma non è finita. Se il bravo è venuto a fare il concorso, vuol dire che vuole lavorare lì da voi, e molto probabilmente ne arriveranno altri. E qui siamo veramente al film dell’orrore: siete chiusi in un dipartimento e assediati da bravi che avanzano verso di voi come zombie, e che come zombie rischiano di contagiare i vostri mediocri, rendendoli anch’essi bravi. Ma non voglio infierire oltre, per timore che qualche direttore di dipartimento facilmente impressionabile possa rimanere segnato da questa storia. Per questo motivo, in ogni dipartimento che si rispetti ogni bravo viene tamponato da una nutrita schiera di mediocri (direi che dieci a uno può bastare) che lo contengono.
Per risolvere il problema descritto sopra in università esiste una norma che recita: almeno il 50% dei posti banditi deve essere per concorsi aperti, e almeno il 20% di quelli assegnati deve andare a personale esterno. Letta dal punto di vista di chi sta nell’università, la regola si legge invece: ti puoi tenere l’80% dei tuoi. È significativo che anche di fronte a una norma così blanda l’università abbia destinato risorse alla produzione di algoritmi per la protezione degli interni. I più noti sono sostanzialmente tre. Il primo, usato da tutti: si fa il censimento dei più bravi che hai, e si bandiscono concorsi aperti fino al concorrente che chiameremo di “mediocrità marginale”, che devi blindare con un bel concorso chiuso. L’esercizio, a livello computazionale, è molto complesso perché viene fatto a livello di ateneo e quindi richiede un’analisi del vantaggio comparato in discipline molto diverse. Il secondo rimedio è più semplice: si scrive il bando in modo da descrivere la persona e in questo modo la si difende da bravi che si occupano di cose anche leggermente diverse. Il terzo rimedio è più raro e un po’ più rischioso: si manda a giro una sollecitazione di interesse, per vedere quanti bravi ci sono in giro, e se ce ne sono troppi non si bandisce il posto, oppure si fa un concorso chiuso.
In questo modo, l’università cerca di ottimizzare (nel vero senso della parola) gli spazi offerti dalla legge per difendersi dall’incubo di avere troppi bravi. Per ironia del destino per un universitario il termine “articolo 18” significa concorso aperto, e quindi non protetto, mentre quello riservato è chiamato: “articolo 24”.
Ma la domanda è: perché per qualcuno è un incubo essere attaccato dai bravi? Ed è veramente meglio avere bravi che mediocri? Un po’ di buon senso ci suggerisce risposte in un senso e nell’altro. Da un lato, ci sono i bravi: i bravi sono abituati a competere, e rischiano di scapparti via. Anche in questo senso, si può dire: “sono sempre i migliori che se ne vanno”. Un gruppo fatto interamente di bravi, quindi rischia di essere a composizione variabile, con bravi che vanno e bravi che vengono. Questo può dare risultati eccelsi, ma al costo di inaffidabilità nei servizi offerti dalla struttura. Un esempio che mi viene in mente lontano dall’università è un documentario su uno veramente bravo con la chitarra, Eric Clapton, che diceva che quando suonava nel gruppo di John Mayall voleva che quest’ultimo lo percepisse come inaffidabile e incerto. Il risultato sono stati tanti concerti andati in malora, ma un album leggendario. Dall’altro lato ci sono i mediocri, i mediani. I mediocri sono affidabili, perché nessuno te li invidia e non possono andare da nessuna parte: resteranno sempre fedelmente accanto a te. Purtroppo, in competizione vengono sconfitti: sono la fanteria e la carne da cannone che finisce prigioniera se c’è una guerra. Anzi, si consegnano immediatamente al nemico senza nemmeno combattere, e comunque mantenendo verso di voi l’atteggiamento di Don Abbondio: che peccato che non siate stato voi il più forte, io sarei stato dalla vostra parte.
Sulla base di queste poche riflessioni di buon senso, non c’è dubbio cosa farebbe ognuno di voi se fosse a capo di un dipartimento o il capo della Consob. Se volete competere, attraete i bravi e fateli combattere, tenendo pure un tessuto connettivo di mediocri e uomini di pace che mantengano attivo il fronte interno. Se competere non vi interessa, perché tanto ogni mese vi arriva il monte stipendi da Roma, i bravi vi portano solo grane. La Consob, che ogni giorno compete con i suoi regolati, ha quindi necessità di reclutare risorse con concorsi aperti, e attivare delle porte girevoli come auspicato da molti. L’università, dove la competizione non c’è se non per campanilismo (ricordiamo che l’assegno dei fondi legati al merito è stato sventolato e poi rimesso in tasca, sotto la gestione Carrozza) per sua natura non fa concorsi aperti.
Visto che i fondi per incoraggiare la concorrenza non ci sono, un’iniziativa a costo zero a favore della concorrenza potrebbe essere quella di abolire la possibilità di fare concorsi riservati. L’effetto sarebbe comunque virtuoso. Da un lato, chi ha paura dell’attacco dei bravi non bandirà posti e risparmierà soldi pubblici. Dall’altro, chi ha paura dei bravi, o chi è costretto ad aprire all’assedio dei bravi per la morìa dovuta al turnover, non potrà che migliorare la sua offerta, e dovrà anche imparare a ospitare i bravi.
In conclusione, seppure in via teorica le ragioni della scelta tra bravi e mediocri non stanno a favore di una parte sola, nel panorama italiano, dove i bravi oggi sono i più deboli, ci sentiamo di stare dalla parte dei bravi e di incoraggiarli. Per questo vogliamo dare ai bravi un nome di fantasia, sufficientemente inusuale, e un nome di donna, perché per le donne il peso di essere brave si aggiunge alle difficoltà di essere donne che lavorano. La chiameremo Monia. Noi stiamo dalla parte di Monia, noi stiamo dalla parte dei bravi.