Ormai da tempo, in Italia, si discute sulla possibilità di modificare il Fiscal Compact. A questo proposito, nelle ultime due settimane, dapprima è sembrato che il clima fosse improvvisamente cambiato, con dichiarazioni “distensive” di Angela Merkel sulle proposte di revisione del Fiscal Compact. Si è infatti parlato di un documento – non pubblicato ufficialmente – che prevedrebbe una applicazione differenziata del fiscal compact a seconda delle riforme messe in atto dai singoli Paesi, e un fondo paneuropeo per gli investimenti in infrastrutture e grandi opere. Nessun dettaglio tecnico, a dispetto della rielvanza dei temi, ma è bastato per ipotizzare un cambio di rotta e la strada aperta per una convergenza tra Popolari e Socialisti nel nuovo Parlamento Europeo. Gli entusiasmi italiani (al documento avrebbe lavorato anche il Governo italiano) sono poi stati raffreddati da diplomatiche ma chiare prese di distanza dell’entourage della Merkel.
Subito dopo ecco le dichiarazioni di Delrio, che ha proposto di escludere dal calcolo del saldo strutturale di bilancio voci qualificate di spesa, sia di natura corrente che in conto capitale; e ha ipotizzato forme di “europeizzazione” del debito pubblico per venire incontro ai Paesi con il livello più alto di indebitamento. Tali proposte o non sono arrivate alle orecchie della Cancelliera o il silenzio della Germania deve forse valere come risposta.
Sul primo punto (non nuovo), la Germania ha sinora sempre ribattuto che la flessibilità il Patto ce l’ha già, ed è proprio quel 3% di deficit/Pil ritenuto ammissibile. Flessibilità c’è anche nel Patto rinforzato con il fiscal compact, dove il pareggio di bilancio è richiesto in termini strutturali (ovvero al netto del ciclo economico) e con possibilità di sforamento dello 0,5% del Pil. Al di là di questo, l’applicazione differenziata dei vincoli richiede un collegamento serio e rigoroso tra allentamenti del Patto e riforme strutturali, non immaginate e promesse bensì avviate e portate avanti speditamente. Non a caso, la Bundesbank non ha mancato di sottolineare che «fare debito non porta crescita».
Sul secondo punto, che suona come il tentativo di imprimere un salto in avanti al dibattito, le modalità operative sono tutte da progettare. C’è per adesso solo l’abbozzo di idea di costituire un fondo europeo a garanzia dei debiti pubblici, tramite il conferimento di porzioni dei patrimoni immobiliari dei Paesi Membri. Chi ha seguito un po’ i tentativi degli ultimi 10-15 anni di valorizzare sul mercato il parco degli immobili della Pa sa bene che, almeno in Italia, disporre di questo patrimonio, facendone una garanzia pronta e eventualmente liquidabile, è tutt’altro che semplice.
In ogni caso quello che resta, dopo queste settimane e all’indomani dell’inaugurazione dell’Europarlamento, è la sensazione che tutti, Germania inclusa, si siano resi conto della gravità del momento, dei rischi che ancora pendono sugli equilibri europei e mondiali, e del fatto che la finestra di azione sia stretta e non può esser persa. Così potrebbero spiegarsi le aperture, anche se non convinte e in parte ripensate, della Merkel.
Non è facile indicare una ricetta, ma forse un aspetto può essere evidenziato e migliorato. Nessuna delle proposte che sinora sono arrivate dai Governi ha tenuto esplicitamente conto della nuova fase di politica monetaria. Draghi lo ha affermato a più riprese: se necessario, la politica monetaria resterà espansiva a lungo, anche ricorrendo a strumenti non convenzionali. Tuttavia invece sembra che, nel ricercare l’equilibrio tra le varie posizioni, i Governi continuino a muoversi come se il contesto non fosse mutato, e politiche di bilancio e leva monetaria restassero, a livello europeo, incomunicabili e incompiuti.
Potrebbe essere questa la strada da seguire, evitando soluzioni utopistiche e estenuanti dibattiti sulla rimodulazione dei vincoli di bilancio, che ricordano la “guerra” dei tetti contabili del Patto di Stabilità Interno in cui si sono impantanate per tanti anni le relazioni tra Stato e Regioni in Italia (senza neppure uscirne del tutto). Viceversa, si potrebbe sfruttare la fase monetaria espansiva e straordinaria, che potrebbe essere attivata da Draghi, come base per uno storico accordo europeo che veda l’azione immediata delle riforme strutturali in cambio di un posticipo o di un rallentamento del percorso di rientro dal debito previsto dal fiscal compact (abbattere di 1/20 all’anno il debito al di sopra del 60% del Pil), che oggi è il vincolo più stringente e l’ostacolo più duro per chi volesse impegnarsi nelle riforme.
Tutti i Partner devono concorrere e guadagnarsi fiducia per ricevere fiducia. La collaborazione delle due leve di policy serve alla politica di bilancio per rilanciare investimenti e domanda aggregata, e alla politica monetaria per sperare di avere impatto sull’economia reale evitando sia di finire nella trappola della liquidità sia di creare premesse per riprese inflattive senza crescita. Lo scambio politica monetaria straordinaria vs. azioni dei Governi deve essere credibile e con immediato riscontro nei fatti. Il rischio, altrimenti, è quello di ritrovarsi, tra qualche anno, ancora senza crescita ma con un indebitamento più pesante e con la Bce e l’Euro definitivamente screditati. La collaborazione fruttuosa tra politica monetaria espansiva e politiche reali di rilancio non può che fondarsi sulla e discendere dalla collaborazione leale e responsabile tra Partner Europei.