Portineria MilanoCadono gli dèi: fine del mito della Procura di Milano

Cadono gli dèi: fine del mito della Procura di Milano

I giudici della seconda Corte d’Appello di Milano hanno assolto Silvio Berlusconi, imputato per concussione e prostituzione minorile nel processo Ruby, per entrambi i capi di imputazione. In primo grado l’ex premier era stato condannato a 7 anni. A proposito dell’accusa di concussione, i giudici dell’Appello hanno detto che “Il fatto non sussiste”. Riferendosi all’accusa di prostituzione minorile invece è stato scritto che i fatti a lui contestati “non costituiscono reato”. Si tratta dell’ennesima sconfitta della procura di Milano, per di più su una vicenda che era stata oggetto di procedimento di fronte al Csm perché il procuratore aggiunto Alfredo Robledo aveva contestato al Capo Edmondo Bruti Liberati di averla passata al pm antimafia Ilda Boccassini e non a lui.

Ripubblichiamo la nostra analisi del 7 luglio 2014 sulla fine del mito della procura di Milano

Raccontano gli spifferi del palazzo di Giustizia di Milano, che Alfredo Robledo, prima ancora dell’esposto al Consiglio superiore della magistratura (Csm) contro il capo Edmondo Bruti Liberati, fosse solito ripetere a chi andava a trovarlo nella sua stanza una frase: «Io non ho scheletri nell’armadio, vengano pure a cercarli, ma qui non ce ne stanno». A parlar di scheletri viene in mente il film Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, all’inizio, quando il frate della Tomba dei Cappuccini di Palermo spiega a Lino Ventura di come il procuratore Varga, interpretato da un grande Charles Vanel, «si facesse raccontare dai morti i segreti dei vivi». Per anni la Procura di Milano è stata una tomba del silenzio. I magistrati chiusi nelle loro stanze, immersi nei segreti delle loro indagini capaci di annientare governi e politici, affacciati su corridoi che ormai hanno più di 80 anni di vita, costruiti durante il ventennio fascista, con una scritta a campeggiare sulle loro teste: Iurisprudentia est divinarum atque humanarum/ rerum notitia iusti atque iniusti scientia. Ovvero: “La Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti”. Ma l’ingiusto da queste parti è sempre sfuggito alla cronaca. Mai una polemica, mai una critica da parte di “certi” giornalisti. Nelle ultime settimane si è allungata pure un’ombra sinistra: alcuni fondi per Expo 2015, circa 12,5 milioni di euro, sarebbero stati dirottati sul Palazzaccio senza un bando di gara, in un vortice di burocrazia, tra ministero di Grazia e Giustizia e palazzo Marino, il comune di Milano.

Sin dai tempi di Tangentopoli le toghe del palazzo di Giustizia milanese sono stati gli intoccabili, gli infallibili, una sorta di Dei dell’Olimpo, incapaci agli occhi dell’opinione pubblica di commettere errori. Sempre nel giusto, sempre nel solco della giustizia. Da queste stanze sono passate molte tra le grandi inchieste degli ultimi vent’anni (scandali politici, affaire Telecom, Abu Omar, furbetti del quartierino, Rubigate e l’odissea di Silvio Berlusconi, Parmalat, crac San Raffaele, vallettopoli, calciopoli, ‘ndrangheta e via elencando). Antonio Di Pietro ci ha costruito una carriera politica su questa purezza d’animo e di spirito. È finito nemmeno quindici anni dopo a giustificarsi per le più di cinquanta case acquistate anche con i soldi del suo partito, l’Italia dei Valori. E adesso, quasi fosse la maledizione dell’ex leader del Psi Bettino Craxi – come amano ricordare i vecchi socialisti milanesi spazzati via dalla stagione di Mani Pulite – sono gli altri storici colleghi del Tonino nazionale, da Ilda Boccassini allo stesso Bruti Liberati, a doversi difendere dai veleni, da esposti a ripetizione, da indagini finite sotto il giudizio del Csm, dal sospetto di insabbiamenti e da screzi tra gli uni e gli altri. C’è chi dice che la morte di Gerardo D’Ambrosio, l’ex senatore del Pd e toga tra le più note, abbia sciolto il collante che ha tenuto in questi anni assieme anime così belligeranti, che un tempo si radunavano in pool per combattere il malaffare. Ma se bisogna fissare una data per l’inizio di questa “Caduta degli dèi”, parafrasando il film di Luchino Visconti, è di sicuro la nascita di un sito internet, Giustiziami, un blog gestito da alcuni cronisti di giudiziaria, la giovane Manuela D’Alessandro e lo storico Frank Cimini — quest’ultimo veterano del settore — che per primi hanno capito di come gli infallibili stessero iniziando a fallire, a cadere uno dopo l’altro.

Scioperano persino gli avvocati, gli errori nelle indagini

Nei giorni in cui le correnti della magistratura sono in guerra per il rinnovo del Csm, è emblematica una foto che hanno postato negli ultimi giorni sul loro sito. È la bacheca sindacale del palazzo. Sopra ci sono due gatti da adottare e un mobile in vendita. È la nuova vita ai tempi “della crisi”. È il segno indelebile di un palazzo che se vent’anni fa veniva citato sui quotidiani internazionali per la sua centralità e importanza, ora invece pare quasi una procura ai confini dell’impero, una procura come molte altre, dove si sbaglia, raggiungendo talvolta i limiti del grottesco. In questi ultimi mesi è successo di tutto. Negli ultimi giorni hanno deciso di protestare persino gli avvocati. Il prossimo 17 luglio incroceranno le braccia perché il giudice Filippo Grisolia, durante un processo dello scorso 20 giugno, ha fatto imbufalire mezza categoria: «Se insistete a voler sentire dei testimoni inutili, in caso di condanna sarò più severo con gli imputati», ha detto. E per i legali si tratta di una violazione «dell’autonoma determinazione del difensore nelle proprie scelte processuali». L’ultima polemica tra le tante, l’ultima bordata dopo che il Csm ha archiviato la polemica tra Bruti Liberati e Robledo. Il tutto dopo l’intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con una lettera che un ex magistrato “eretico” come Bruno Tinti ha definito «illogica e contradditoria» perché va bene difendere le scelte del procuratore Capo ma queste «non possono e non devono sconfinare nell’arbitrio».

 

La bacheca sindacale a palazzo di Giustizia

A dir la verità il primo a finire sotto i riflettori per errori dal punto di vista delle indagini negli ultimi anni è stato Francesco Greco, il responsabile dei reati finanziari, da tempo in guerra proprio con Robledo. Nell’ottobre del 2013 all’ex storica toga di Mani Pulite sono state tolte sette inchieste, perché secondo la procura Generale «non avrebbe indagato su vicende di evasione fiscale». Il gip Andrea Salemme gli respinse sette richieste di archiviazione. Le carte passarono ad altri colleghi. Fa impressione di come a pochi mesi di distanza la stessa vicenda sia accaduta sul caso di un politico come Roberto Formigoni, ex presidente di regione Lombardia. Il giudice per l’udienza preliminare Vincenzo Tutinelli ha ordinato ai pubblici ministeri Antonio D’Alessio e Paolo Filippini di riformulare in un capo di imputazione la descrizione dei fatti contestati al senatore di Nuovo Centrodestra nell’ambito del procedimento sulle presunte mazzette pagate dall’imprenditore Pierluca Locatelli per ottenere il via libera alla realizzazione di una discarica a Cappella Cantone nel cremonese: per Tutinelli il capo d’imputazione «è strutturalmente diverso da come emerge dagli atti».

Anche Ilda Boccassini sotto osservazione al Csm

Vacillano gli Dei. La Boccassini, magistrato di lungo corso, capace di debellare la ‘Ndrangheta nel Nord Italia con il processo Infinito, ormai pietra miliare nella storia della giurisprudenza italiana, si ritrova adesso a difendersi da chi la accusa di «non aver adottato soluzioni organizzative e operative che favorissero i rapporti di collaborazione» con la Procura nazionale antimafia. Non solo. Sotto la sua gestione, per lo meno tra il 2010 e il 2013, c’è stato un «arretramento» sul piano delle informazioni che la procura di Milano ha inserito sulle sue inchieste di criminalità organizzata nella banca dati della Direzione Nazionale Antimafia. Detto in soldoni, il problema principale di Ilda la Rossa sarebbe rappresentato dal “deficit informativo che caratterizza strutturalmente i rapporti tra la Dda di Milano e la Dna”. Un fatto “accertato”, secondo la commissione di palazzo dei Marescialli, che ha accusato l’ufficio della Boccassini di inserire troppo a rilento le notizie sulle sue inchieste nella banca dati nazionale della Dna. La Boccassini è forse l’emblema dell’intoccabilità delle toghe della procura di Milano. Inavvicinabile, circondata sempre dai suoi fidati uomini di polizia giudiziaria. Quando i cronisti la salutano lei li guarda in faccia ma non risponde. Parla con pochi, soprattutto Piero Colaprico di Repubblica o Enrico Mentana, l’ex direttore del Tg5 ora a La7.

Ma gli screzi non sono finiti. Ogni giorno ha la sua pena. Non c’è solo Robledo a protestare per essere stato escluso dall’inchiesta su Expo 2015, dopo aver partecipato sin dall’inizio delle indagini, con in arrivo le carte del Mose da Venezia su Marco Milanese, l’ex braccio destro di Tremonti da poco arrestato. Il magistrato Luigi Orsi ha deciso di ricorrere in Cassazione e di non inviare gli atti sul caso Unipol-Fonsai ai pm torinesi Vittorio Nessi e Marco Gianoglio. Anche qui è Milano il centro del mondo. Perché a Torino è appena arrivato Armando Spataro, ex storica toga meneghina, che si è ritrovata l’ennesima patata bollente da smaltire. Certo sono questione giuridiche, di competenze su dove si sarebbe consumato il reato, ma si trasformano nell’ennesima battaglia, nell’ennesimo scontro di una guerra che non conosce sosta e che rischia di pregiudicare inchieste come il lavoro di mesi. Nel frattempo protestano le Camere Penali che hanno condannato la sentenza pilatesca del Csm. Protestano gli indagati, come Vito Gamberale di Sea che non vuole ritrovarsi nel mezzo di una guerra tra toghe prima di finire sotto processo. Protestano persino Antonio Rognoni, ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde e Gianstefano Frigerio, il professore della cricca Expo, che si rifiutano di parlare con l’uno o l’altro procuratore. Viene in mente il finale del film il Caimano di Nanni Moretti, una previsione sbagliata: dovevano essere i berlusconiani a incendiare il palazzo dopo la condanna del leader, sono stati gli stessi magistrati a farlo.

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