Hanno appena proclamato la nascita di un califfato di uno Stato islamico, a cavallo del confine che Mark Sykes e Georges Picot avevano tracciato nel 1916 separando la Siria dall’Iraq, ma è difficile che loro, i fondamentalisti guidati da Abu Bakr al-Baghdadi, si iscrivano un giorno alle qualificazioni per la Coppa del mondo di calcio. A Raqqa, dopo il loro arrivo, sono stati confiscati i televisori: niente Mondiali (anche se alcuni militanti sono stati fotografati mentre seguivano le partite, ma, si sa, il controllore non è mai controllato). In Iraq hanno fatto di peggio, postando un video con una testa decapitata e uno slogan agghiacciante: «Questa è la nostra Coppa del mondo».
Il calcio è haram, è peccato, è illecito, agli occhi della jihad? Per alcuni, sì. Prendete gli al Shabaab, i guerriglieri somali affiliati ad al Qaeda. Il 15 giugno hanno organizzato un attentato a Mpeketoni, in Kenya, uccidendo cinquanta persone che stavano guardando la Coppa in televisione. L’obiettivo era punire i keniani per la loro partecipazione alla missione lanciata dall’Unione africana in Somalia contro la jihad. L’assalto ricorda in modo sinistro quello organizzato in un bar di Kampala, capitale dell’Uganda, nel 2010, durante la finale del Mondiale sudafricano, tra Spagna e Olanda: più di settanta morti (e anche quel caso si volevano colpire gli ugandesi per il loro contributo all’operazione anti Shabaab).
Il cosmopolitismo immaginato dagli illuministi si è realizzato nel ventesimo secolo: tutti cittadini dell’universo pallone. Se oggi fosse vivo, Voltaire ambienterebbe la sua storiella tra Rio, San Paolo e Fortaleza, non alla Borsa di Londra. Calcio e jihad sono fenomeni globali, ma antitetici. Lo sport crea idoli laici e non esclude nessuno, a patto che ci sappia fare coi piedi. Nulla di più lontano dal fondamentalismo che distingue tra fedeli e infedeli, puri e impuri. Altro concetto che va forte tra i terroristi: il calcio come pericoloso concorrente, gigantesca arma di distrazione di massa, che allontana dalla mente la prospettiva della jihad. Quando conquistarono buona parte della Somalia, tra il 2010 e il 2011, gli al Shabaab bandirono il football dalla spiaggia di Mogadiscio e requisirono lo stadio, trasformandolo in una base operativa. Poi dovettero trovare un compromesso, per non alienarsi totalmente le simpatie della popolazione, e virarono su una forma halal, lecita, di gioco: banditi i calzoni corti, fischio finale fissato quindici minuti prima dell’inizio della preghiera, non importa quanto tempo manchi allo scadere dei novanta minuti. Concesse, invece, le divise occidentali (sembra che tiri parecchio quella dell’Arsenal).
Anche i talebani proibirono il calcio e convertirono lo stadio di Kabul in un luogo per pubbliche esecuzioni. E per i nigeriani Boko Haram il football è l’ennesima perversione occidentale
Anche i talebani proibirono il calcio e convertirono lo stadio di Kabul in un luogo per pubbliche esecuzioni. E per i nigeriani Boko Haram il football è l’ennesima perversione occidentale. Lo hanno fatto capire con una serie di attentati, l’ultimo dei quali ha colpito un locale di Damataru, parte centro-orientale del Paese, in cui decine di persone stavano vedendo gli sforzi (vani) del Brasile di battere il Messico nella seconda partita del girone A. In queste scelte operative non mancano ragioni di opportunismo – il calcio riunisce molte persone, per cui i luoghi di ritrovo sono bersagli ideali, se si vuole provocare una strage – né esistono, a quanto pare, sure del Corano che giustifichino una jihad contro la Fifa.
Si tratta, insomma, della posizione di gruppi estremisti, come quelli che hanno minacciato i giocatori dell’Algeria, perché molti di loro non hanno rispettato il digiuno di Ramadan prima della partita con la Germania, o di alcuni predicatori, come lo sceicco saudita Abd Al-Rahman al-Barrak secondo cui «Il calcio è un abominio che fa sprecare tempo, porta ad adottare i costumi depravati dei nemici dell’Islam e ad adorare i loro idoli», o il salafita egiziano Yasser Al Borhamy, che ha emesso addirittura una fatwa per proibire la visione della Coppa del Mondo.
Leggendo la ricerca di Vocavit sui profili Facebook dei sostenitori di Al Qaeda, Hamas ed Hezbollah si deduce la grande popolarità del pallone in terra islamica
Leggendo la ricerca condotta dal sito di news Vocativ sui profili Facebook dei sostenitori di gruppi fondamentalisti – Al Qaeda, Hamas ed Hezbollah – si deduce la grande popolarità del pallone in terra islamica. Nelle preferenze mondiali svetta l’Algeria, ma anche Brasile, Francia, Inghilterra ed Italia riscuotono una certa simpatia. Lo stesso Isis in Siria ha attenuato la propria posizione anti-football e nella massiccia campagna di propaganda sui social network ha utilizzato le foto di guerriglieri che giocano a calcio con i bambini siriani. Se non si può battere il nemico, bisogna cavalcarne l’onda.
I governanti musulmani non si sottraggono alla strumentalizzazione politica del pallone e non perdono occasione di mostrare la passione per il football. L’Iran non fa eccezione. A Vienna i negoziatori di Teheran hanno interrotto le trattative sul programma nucleare per vedere il debutto mondiale della loro nazionale, contro la Nigeria. E che dire del tweet presidenziale, con la foto di Rohani in tuta – vicinanza psicologica, si suppone – impegnato a seguire la partita sul divano.
Proud of our boys who secured our first point–hopefully the first of many more to come. #WorldCup2014 #TeamMelli pic.twitter.com/9pzyT1Dr3f
— Hassan Rouhani (@HassanRouhani) 16 Giugno 2014
La qualificazione alla Coppa del mondo è stata motivo d’orgoglio per tutto il Paese, quasi una dimostrazione all’Occidente della tempra persiana. Grandi risultati con piccole risorse. Sì, perché anche il calcio ha subìto l’effetto delle sanzioni. La Federazione iraniana ha avuto grandissima difficoltà a raccogliere i fondi dalle organizzazioni internazionali di categoria, perché il sistema bancario statale era stato escluso dal circuito finanziario globale. L’anno scorso l’Iran ha dovuto cancellare per ragioni economiche la trasferta estiva in Portogallo, dove si sarebbe dovuto allenare per affrontare il Ghana. Gli otto milioni di dollari garantita dalla Fifa, in seguito al ticket mondiale, sono stato appena sufficienti ad organizzare alcune settimane di preparazione in Austria e a sfidare in amichevole Bielorussia, Angola, Montenegro e Trinidad e Tobago. In Brasile la coperta era talmente corta che la Federazione ha proibito ai giocatori di scambiare la maglia con gli avversari a fine partita.
Rohani, la cui vittoria elettorale, giugno 2013, coincise proprio con la qualificazione alla Coppa del Mondo, fa leva sul pallone per aumentare la propria popolarità, come già era accaduto, prima di lui, con Mahmoud Ahmadinejad (che però si guadagnò la fama di gufo quando la nazionale prese il gol decisivo in un match con l’Arabia Saudita subito dopo il suo ingresso nello stadio). Uno dei primi personaggi incontrati dal presidente dopo l’elezione è stato Sepp Blatter, con l’obiettivo di perorare la causa iraniana in vista dell’organizzazione della Coppa d’Asia 2019. Eppure il calcio è un fenomeno dalle due facce, potere e contropotere, controllo e libertà. E anche in Iran si cerca di usare lo sport per ritagliarsi spazi di autonomia altrimenti non garantiti, come fecero le donne che nel 1997 scesero in piazza per festeggiare la qualificazione ai mondiali francesi.
Il divieto per le donne per frequentare gli stadi – tema di un gustosissimo film, Offside, in cui una ragazza si traveste da uomo per seguire la partita – fu rimosso da Ahmadinejad, ma prontamente ripristinato dietro pressione dell’ayatollah Khamenei. Il calcio resta un affare da maneggiare con cura, persino le immagini dal Brasile sono arrivate filtrate dalla censura. Troppe donne, sbracciate, senza velo, sulle tribune. Quello, sì, è decisamente poco halal.