Il viaggio de Linkiesta nell’emergenza nomadi della Capitale. Un reportage in tre puntate sul dramma sociale dei campi rom, le storie dei protagonisti e l’incredibile spreco di denaro pubblico. (La seconda puntata. La terza puntata)
PRIMA PARTE – Tor di Quinto, Roma Nord. A un passo dai quartieri alti di Corso Francia e Collina Fleming, a poche centinaia di metri dagli aperitivi alla moda di Ponte Milvio, c’è un pezzo d’inferno. Lungo una breve striscia d’asfalto bruciano i corsi e ricorsi storici di una città in eterno affanno. Discariche abusive, cani randagi, baracche, prostitute in camper. L’omicidio della signora Reggiani per mano dello sbandato Romulus Nicolae Mailat, clamoroso episodio di cronaca nera nonché volano della campagna elettorale di Gianni Alemanno avvenne qui vicino, era il 2007. Sempre qui lo scorso maggio si è consumato l’agguato ai pullman dei tifosi del Napoli ed è stato ferito a morte Ciro Esposito.
C’era anche un campo nomadi a Tor di Quinto. In via del Baiardo, tra la pista ciclabile e un’interminabile serie di campi sportivi. Uno dei più vasti insediamenti della Capitale. Nell’estate di due anni fa la giunta Alemanno riuscì a smantellarlo. Vent’anni di vita. Un accampamento storico, grande e disordinato, crogiolo di etnie dalla convivenza difficile e dalle attività spesso illecite. Baracche e roulotte ben visibili dalla tangenziale, chine sulle sponde del Tevere. Per sgomberare il villaggio il sindaco ci aveva messo tre anni. Mesi di censimenti, burocrazia e opposizioni politiche. Il resto è storia recente. Ripulita l’area, i progetti di riqualificazione sono finiti nel cassetto di qualche ufficio del Campidoglio. Il sogno di costruire un grande impianto sportivo a due passi dal Tevere è tramontato assieme alla candidatura per le Olimpiadi 2020. E i cittadini del quartiere hanno perso ogni residua speranza. Non ci sono più i nomadi, ma su quei terreni oggi sorge una discarica abusiva. «È la nostra Terra dei Fuochi» racconta il consigliere municipale Giuseppe Calendino. Esponente di Fratelli d’Italia, qualche settimana fa ha inseguito e fatto arrestare un nomade che scaricava pneumatici sul ciglio della strada, per i giornali di quartiere è diventato il “consigliere sceriffo”. «E la vuole sapere qual è la differenza con la Campania? – continua Calendino – A Tor di Quinto i rifiuti, anche tossici, non vengono seppelliti. Restano all’aria aperta». Per rendersi conto dello scempio basta superare quello che una volta era l’ingresso del campo nomadi. Un’enorme area abbandonata, una pattumiera ricolma di calcinacci, materiali per l’edilizia, infissi, televisori, scheletri di frigoriferi e divani. Proseguendo verso l’argine del fiume non è difficile imbattersi nei resti di roghi e delle ultime baracche ricostruite in fretta e furia dopo lo sgombero.
Tiziana Fabi/Afp/Getty Images
Lo scorso anno il Campidoglio ha dilapidato più di 24 milioni per affrontare la “questione rom”
Ecco quel che rimane dell’insediamento di via del Baiardo. Simbolico fallimento degli interventi che negli anni hanno tentato di sistemare, nascondere, ricollocare i nomadi. Un’emergenza eterna, come la città che non ha mai imparato a conviverci. Una situazione ormai fuori controllo che divide i romani, li fa litigare generando illegalità e razzismo, degrado ed emarginazione. Dai cassonetti depredati ai roghi tossici, dai furti di rame alle bande di borseggiatori che controllano la stazione Termini. Dalle guerre etniche negli accampamenti alle famiglie per bene che non trovano lavoro e faticano ad affrancarsi dall’etichetta di nomadi. Difficile conoscere i numeri esatti del fenomeno. In tutta la città circa cinquemila nomadi — di cui 2.350 minorenni — vivono nei sette campi attrezzati e nei due “tollerati”. Senza contare i settemila sparsi nelle centinaia di insediamenti abusivi che spuntano come funghi nelle periferie. Solo nei primi mesi del 2014 il gruppo Sicurezza Pubblica ed Emergenziale della Polizia locale di Roma Capitale ne ha individuati 86. Intanto il Comune continua a spendere. Secondo un recente studio dell’associazione 21 Luglio, vicina ai diritti delle popolazioni rom e sinti, lo scorso anno il Campidoglio ha dilapidato più di 24 milioni per affrontare la “questione rom”. Gran parte per la gestione e la vigilanza dei campi e solo lo 0,4 per cento per l’inclusione sociale dei nomadi. Basta pensare al caso di Castel Romano, il più grande insediamento della città. Sorge nel quadrante meridionale della Capitale, lungo la via Pontina. Ospita poco meno di 900 persone, ma per i contribuenti romani è un incubo: solo nel 2013 è costato oltre 5 milioni di euro. «Dalla sua nascita nel 2005 – si legge ancora nel documento dell’associazione 21 Luglio – per una famiglia composta da 5 persone il Comune di Roma ha già speso oltre 270mila euro». Una pioggia di denaro pubblico che si perde nel buco nero dell’eterna emergenza nomadi. Una tavola imbandita attorno a cui siedono trentacinque enti pubblici e privati tra aziende, cooperative e associazioni che operano nei campi prestando servizi di gestione, vigilanza, pulizia, scolarizzazione, assistenza. Buona parte dei quali ha ricevuto gli incarichi tramite affidamento diretto e non con bandi pubblici.
«Il bello è che oggi non siamo in grado di sapere nemmeno quanti nomadi vivono sul nostro territorio» racconta l’avvocato Giorgio Mori, ex presidente della commissione Politiche Sociali del XV municipio. «I campi abusivi nascono continuamente». Sulla via Flaminia una trentina di nomadi vive ormai da anni sotto un cavalcavia. Non sono neppure nascosti, l’insediamento improvvisato sorge a due passi dal centro Rai, proprio di fronte a uno dei principali depositi Atac della città. «Quando ero consigliere – continua Mori – li abbiamo allontanati almeno tre volte, senza risultato». Sulla via Cassia un altro gruppo di nomadi aveva trovato alloggio in un sottopassaggio a pochi metri da una scuola. «Dopo l’ennesimo inutile sgombero abbiamo dovuto sigillare gli ingressi per evitare che rientrassero». Ignazio Marino, Gianni Alemanno, Walter Veltroni. Per una volta destra e sinistra si scoprono unite. Anche tornando indietro nel tempo, sembra che a Roma non ci sia mai stata un’amministrazione in grado di risolvere la questione nomadi. «Almeno il piano di Alemanno cercava di rendere la vita difficile ai rom allontanandoli il più possibile dal centro, mentre oggi l’amministrazione non sa che fare», attacca l’avvocato Mori. Ed è proprio alla precedente amministrazione che si deve l’attuale assetto. I sette “villaggi della solidarietà” attrezzati e i tre “centri di raccolta rom” dove sono confluiti i nomadi cacciati dagli insediamenti abusivi, con non pochi problemi di integrazione e convivenza tra etnie diverse. Dieci strutture confinate all’estrema periferia della città (la più lontana è a 32 km dal centro) e afflitte da problemi in via di cronicizzazione. L’associazione 21 Luglio denuncia «isolamento fisico e relazionale, precarie condizioni igienico-sanitarie, spazi inadeguati e asfittici, servizi interni insufficienti e unità abitative in stato di grave deterioramento». Bungalow, container, roulotte, microcosmi con regolamenti rigidi e prassi fin troppo fluide.
I vigili del Fuoco domano un rogo nel campo rom di via di Salone
Nel XV municipio oggi resta un unico campo autorizzato. È il Camping River, un’ex struttura turistica di proprietà privata in fondo a via della Tenuta Piccirilli, periferia nord della Capitale. Dal 2005 a pagare l’affitto è il Comune. Qui trovano alloggio romeni, bosniaci, kosovari, più un gruppo di nomadi provenienti dal Casilino ‘900, l’ex campo più grande d’Europa smantellato nel 2010 da Alemanno. Il Camping River accoglie 550 persone e solo nel 2013 l’amministrazione comunale ha sborsato 2,2 milioni di euro per le spese di gestione, sicurezza e scolarizzazione del campo. L’associazione 21 Luglio ha calcolato che dall’insediamento (2005) ogni famiglia sia costata alle casse pubbliche 210mila euro. Senza una cartina non è facile trovare il campo. Sorge alla fine di una strada residenziale lunga e stretta. Prima di raggiungere l’ingresso bisogna superare una serie di villette curate, una pizzeria e un’associazione sportiva. Poi c’è il camping dei nomadi. Gli addetti ai lavori lo presentano come «uno degli insediamenti attrezzati meglio gestiti e più puliti di Roma». Hanno ragione. Perché qui i problemi restano chiusi appena fuori dal cancello di ingresso.
«Ormai questa strada è terra loro, noi non possiamo nemmeno uscire perché rischiamo di essere investiti»
È uno degli abitanti del quartiere a esternare il disagio dei residenti, barricati in casa tra antifurti e inferriate. A patto di parlare sotto anonimato. «Ormai questa strada è terra loro — spiega al telefono — Corrono con le automobili di grossa cilindrata, senza assicurazione, noi non possiamo nemmeno uscire perché rischiamo di essere investiti». Chi vive a via Tenuta Piccirilli sgrana il rosario dei soprusi. A partire dalle macchine dei residenti che vengono sistematicamente “battezzate”. «Passi per i minorenni che vedo spesso al volante – continua lo sfogo – Ma tanti ragazzi scavalcano continuamente le recinzioni per buttare l’immondizia e fare i loro bisogni nei nostri giardini». I vicini ricordano anche i furti di legna dal forno della pizzeria. Alla fine l’elenco della rabbia si trasforma in una guerra tra poveri, sullo sfondo un quartiere dimenticato dall’amministrazione comunale: «Nella nostra via vivono una quarantina di famiglie e nonostante questo siamo senza fogna e senza allaccio idrico, abbiamo dovuto provvedere autonomamente con pozzi e fosse biologiche. Invece il villaggio rom ha fognature e depurazione dell’acqua». Non ci sono autobus. «Ma una navetta riservata ai rom parte proprio davanti al villaggio. Pensare che fuori dall’ingresso è pieno di Mercedes, Porsche e Bmw…». La rabbia si trasforma in esasperazione. Ma i residenti ci tengono a respingere ogni accusa di razzismo. «Siamo gente semplice e non abbiamo nulla in contrario ad accogliere chi ha bisogno, purché viva rispettando le regole della comunità. Ormai però, qui comandano i nomadi. Fanno gli arroganti, tanto sanno che nun je potemo fa’ niente…».
(1-SEGUE)