Lungo il Tour di Nibali una Francia “malata d’Europa”

Lungo il Tour di Nibali una Francia “malata d’Europa”

Sugli Champs-Élysées trionfa Vincenzo Nibali, il primo italiano a vincere il Tour de France dopo Marco Pantani, “lo squalo” dopo “il pirata”. Al suo fianco “i delfini” Thibaut Pinot e Jean-Christophe Péraud non solo non hanno sfigurato, ma hanno battuto lo spagnolo Alejandro Valverde, annunciando un brillante avvenire. Dunque, il pubblico francese fa buon viso a cattivo gioco e spera che un connazionale torni a vincere nel futuro prossimo venturo.

La televisione ha mostrato in tutta Europa le immagini idilliache dell’Esagono, la gente lungo le strade a incoraggiare e acclamare i campioni, approfittando delle lunghe ferie garantite grazie alle 35 ore. Francesi in tenuta estiva, francesi allegri e soddisfatti, coraggiosi tanto da sfidare i temporali che hanno accompagnato questo bizzarro luglio in tutta Europa. Eppure… eppure dietro questa foto-cartolina c’è una realtà ben più triste e grama.

La Francia è la malata d’Europa, ormai lo riconoscono tutti, lo dice anche un intellettuale liberale francese come Guy Sorman. L’economia non si muove. Secondo le ultime previsioni del Fondo monetario internazionale, la Francia crescerà dello 0,7% poco più dello 0,3 italiano e quasi la metà rispetto alla Spagna (+1,2). «Persino François Hollande non crede più alla ripresa», scrive Le Monde. L’unica curva rivolta all’in su è quella della disoccupazione.

Crisi, immigrazione, la questione islamica, un asse con la Germania che si è trasformato in boomerang, tutto ciò ha alimentato quel risentimento profondo che ha fatto vincere Marine Le Pen alle elezioni europee. Oggi anche lo Stato è malato, non parliamo della politica, insiste Sorman. Ma il peggio è che nessuno sa come risalire la china, né i socialisti piombati sotto il minimo storico, né i tardo-gollisti orfani di tutto, non solo del mitico generale, il torreggiante Charles de Gaulle, ma persino di Nicolas Sarkozy.

Cosa c’è, dunque, dietro la Grande Boucle? Il settimanale tedesco Der Spiegel ha avuto una idea giornalistica efficace come tutte le cose semplici: seguire tappa per tappa e raccontare le malaise, il nuovo malessere francese. Raramente l’umore collettivo è sceso tanto in basso: secondo i sondaggi due terzi dei francesi hanno un’idea pessimistica sull’avvenire del proprio Paese. E il Tour dello scontento lo dimostra. Cominciando da Lille, città industriale dalla spiccata impronta fiamminga. Il comune da 13 anni è guidato da Martin Aubry, socialista figlia di Jacques Delors, il padre dell’Unione monetaria europea, e lei stessa madrina delle 35 ore che le hanno assicurato riconoscenza persino dai seguaci del Front National.

La capitale del Nord-Est resta una roccaforte della sinistra, ma è stretta d’assedio dalla crisi e dalla odiata mondialisation, quella che rischia di far spazzar via il vecchio tessuto industriale, i ceti sociali e le forze politiche che ne sono espressione. Manuel Valls, il primo ministro francese, ha lanciato l’allarme: «Se non cambia, la sinistra scompare», ha proclamato con accenti non profetici, bensì realistici, perché molti suoi timori si stanno già avverando. Scompare non per la crescita panciuta e soddisfatta della classe media (come si pensava un tempo sulla scorta della sociologia americana), ma per il decomporsi della società in grandi e piccole corporazioni, intente all’autodifesa e portatrici di una nuova guerra di tutti contro tutti.

Parole piene di saggezza, ma quali sono i rimedi che il giovane Valls propone? Difesa dell’eccezione francese, quella economica (ciò lo statalismo protezionista) e quella culturale (come la legge anti-Amazon approvata per difendere Hachette che non è esattamente un piccolo editore e nemmeno tanto indipendente). Forse Valls voleva sfidare il senso comune nel suo stesso partito. O, più probabilmente, parla bene e razzola male, come tutti i socialisti orfani (anche loro) di una grande e controversa figura politica, quella di François Mitterrand.

E che ne è di Arras, icona della Francia profonda dove nacque Maximilien Robespierre? L’inviato dello Spiegel trova un immigrato libanese che denuncia la mancanza di valori: né famiglia, né amicizia, né religione, il francese sembra diventato l’ultimo uomo di Nietzsche che pensa solo al soddisfacimento immediato dei propri bisogni personali, fisici o ludici che siano. A Saint Remy de Provence c’è Stéphane Paillard, enologo, creatore del Bureau Viticole, che lamenta una “insicurezza mai vista prima”. E a Beaucaire, il nuovo sindaco Julien Sanchez, trent’anni, parigino, ex portavoce di Marine Le Pen, spiega come la delusione per i vecchi partiti abbia lasciato una prateria per la cavalcata trionfale del Front National.

La Grand Boucle si chiude a Parigi, ma l’ultima tappa parte da Evry, cittadina a 137 chilometri di distanza, guidata per 11 anni proprio da Manuel Valls e considerata un gioiello di buona amministrazione e integrazione sociale. Eppure, Nelle Basse, che fa la parrucchiera nel centro commerciale, e suo marito, steward dell’Air France che parla ben sei lingue, vogliono tornare in Senegal. «Viviamo qui da quindici anni e non abbiamo amici – racconta -. Ci salutiamo con i vicini, poi ciascuno sta per conto suo. Congolesi, arabi, quelli che vengono dal Mali o dal mio Senegal. Tutti si sentono al sicuro, e lo sono rispetto alle tragedie dei loro Paesi. Sicuri, ma soli».

Anche l’integrazione repubblicana, vanto del modello transalpino, è da tempo in crisi e ha lasciato il posto all’integrazione per tribù, quella stessa che gli intellò hanno sempre rimproverato al modello americano. Nessuno ha più la soluzione; i francesi, sempre così sicuri della loro République, oggi si trovano smarriti e si guardano attorno. Le Figaro si chiede come hanno fatto gli inglesi a creare un milione e 700 mila posti di lavoro e come fanno a crescere del 3,2%, secondo le stime del Fmi. Il quotidiano filo gollista spiega e apprezza il modello liberista che, però, la maggioranza dei francesi rifiuta. Poi c’è la Germania chiamata la Mannschaft, la squadra, dove tutti fanno sistema e l’economia sociale di mercato funziona ancora, la Germania soddisfatta, vincente e conservatrice.

Guarda ai più forti la Francia non solo per invidia, non solo per imparare, non solo per l’eterno riflesso di una grandeur perduta, ma per un timore ben più radicato, quello di assomigliare all’Italia. Tra difese corporative e rifiuto della modernità (si pensi al Politecnico di Milano condannato da un giudice perché vuol fare i corsi di laurea in inglese), con una sinistra vittima del proprio passato e una destra in cerca di identità, il pericolo esiste davvero. Ecco perché Parigi non farà mai fronte comune con Roma; nonostante le chiacchiere e le promesse, nessun “asse franco-italiano” contro l’austerità sarà mai una opzione realistica. Nemmeno se a fare il commissario economico a Bruxelles finirà Pierre Moscovici che pure su molte cose non la pensa in modo molto diverso da Matteo Renzi. Il fatto è che, dopo aver smesso secoli fa di essere un modello culturale, l’Italia è lo spettro che la Francia non si può permettere di evocare.

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