Dalla Grande Recessione alla Lunga Stagnazione

Dalla Grande Recessione alla Lunga Stagnazione

A Bruxelles come a Francoforte, a Roma come a Parigi, passato il ferragosto è tutto un agitarsi per trovare la scappatoia. Le regole costruite con elegante razionalismo leibniziano (in fondo anche l’euro è stato concepito senza porte e senza finestre, una volta entrati non si può più uscire) non vengono rispettate da nessuno. Né Italia né Spagna, né Francia né Grecia, possono stare entro i limiti aurei di Maastricht tanto meno sono in grado di seguire il percorso virtuoso che in vent’anni dovrebbe portarli verso un debito del 60% in rapporto al prodotto lordo. Chi come la Germania ha cercato di indossare la camicia di forza adesso comincia a sentirne le piaghe. Dunque, urge un escamotage: questo sembra l’obiettivo di Renzi come di Hollande, e bon gré mal gré l’Unione europea, al vertice del 30 agosto, ne prenderà atto.

Intanto Mario Draghi e Jens Weidmann, sotterrata l’ascia di guerra, dovranno stampare moneta per aiutare ancora le banche (altri mille miliardi) sperando che finanzino famiglie e imprese, mentre diventa sempre più inevitabile ricorrere all’acquisto diretto di titoli come ha fatto la Federal Reserve. Il tutto serve a tamponare una crisi i cui brontolii di fondo stanno diventando tuoni e lampi.

Tamponare non risolvere, perché una soluzione non è stata trovata: dalla Grande Recessione siamo passati alla Lunga Stagnazione. E ormai la domanda fondamentale, rimasta finora sotto traccia, balza fuori dirompente: perché nulla ha funzionato? Se lo chiede Paul Krugman sul New York Times sotto il titolo inquietante “Forever slump”, depressione per sempre. La sua risposta è che non è stato fatto abbastanza. Le banche centrali sono intervenute, ma in ritardo e comunque avrebbero dovuto essere più coraggiose, in particolare la Bce (anche se il premio Nobel del 2008 apprezza l’attivismo di Draghi). La rivalutazione dell’euro, una moneta gestita in modo rigido, è stata un’ulteriore aggravante che ha favorito l’arrivo della deflazione. Quanto ai governi, hanno speso, ma non a sufficienza, soprattutto nell’area euro dove l’austerità germanica ha allungato la recessione facendo pagare pensati costi sociali. È la tesi classica dei neokeynesiani: nel resto del mondo stanno a sinistra (più o meno moderata), in Italia si trovano sia nella sinistra del Pd (per esempio Stefano Fassina) sia a destra (da Renato Brunetta a Matteo Salvini che in più ci mette la demonizzazione dell’euro).

Dal lato opposto c’è il partito di chi pensa che sia stato fatto troppo e male: sono soprattutto i neoliberisti anch’essi trasversali perché attraversano i progressisti (il liberismo di sinistra di Alesina&Giavazzi per esempio) e i moderati (da Martin Feldstein a Mario Monti). Secondo loro l’interventismo forsennato apre la strada a un’altra crisi, gonfiando bolle (i subprime negli Usa vengono usati per comprare l’auto o per finanziare i prestiti agli studenti), deprimendo il dollaro e asfaltando l’autostrada per una nuova fiammata inflazionistica. Il percorso virtuoso passa attraverso riforme per aumentare efficienza e competitività, che però richiedono tempo, soldi e consenso, tre fattori quanto mai scarsi.

L’Abenomics sembrava l’officina della grande rivincita keynesiana, ma si è scontrata anch’essa con la realtà di un debito pubblico al 250% del pil. Non appena il governo ha aumentato le imposte indirette, la domanda è crollata. Nel secondo trimestre il pil è caduto addirittura del 6,8% su base annua dopo essere cresciuto del 6,1 nel periodo gennaio-marzo. Koichi Hamada professore emerito a Yale e consigliere del primo ministro Shinzo Abe, ammette che il rincaro delle tasse “è stato un serio colpo per i consumatori”. E anche a Tokio s’è riaccesa la diatriba tra il partito del troppo e quello del troppo poco. Nessuno dei due, né in Giappone né altrove, ha il coraggio di cambiare prospettiva.

Una interpretazione più strutturale si può leggere nell’intervista a Raghuram Rajan, governatore della banca centrale indiana pubblicata sul Financial Times di sabato. Rajan, già capo economista del Fondo monetario, docente a Chicago, laureato al Mit, è una delle menti più brillanti tra gli adepti alla “triste scienza”. Sei anni dopo – sostiene – le banche centrali pigiano ancora il piede sull’acceleratore per spingere il credito verso i mercati emergenti. E questo crea nuovi squilibri. Se si riesce a sgonfiare le bolle lentamente o magari con una serie di minicrisi, allora il rientro è gestibile. Altrimenti dobbiamo aspettarci un’altra scossa di vasta portata.

Ma lo spunto più nuovo riguarda l’attuale fase della globalizzazione. “I paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo – dice Rajan – non riescono a coordinarsi, mandano il capitale avanti e indietro, destabilizzando violentemente i sistemi finanziari. L’indebitamento si dirige verso i mercati emergenti, i quali spendono troppo e ciò li mette in crisi, allora i debiti muovono verso i paesi industriali anche in questo caso provocano dissesti, così tornano di nuovo indietro”. Questo pendolo è conseguenza degli squilibri fondamentali che si sono creati nell’economia mondiale, e fonte perenne di instabilità e di crisi. “I paesi ricchi hanno mancato di riformare le loro economie – prosegue – Il G20 è stato incapace di formulare una risposta. Così si è creato un vuoto nello spazio multilaterale”. Da qui arriva il pericolo prossimo venturo.

Troppo pessimista? Forse, ma coglie la dimensione politica della crisi spesso sottovalutata nel balletto delle ricette tecnico-economiche. L’incapacità di ridurre gli squilibri fondamentali tra aree del mondo e all’interno delle singole aree economiche, è una conseguenza della notevole mancanza di leadership, un altro modo meno diplomatico per definire quel vuoto denunciato da Rajan. Ed è una differenza molto grande rispetto ad altre crisi strutturali come la Grande Depressione degli anni ’30 o il mutamento delle ragioni di scambio in seguito allo shock petrolifero degli anni ’70.

Ciò ci conduce al nostro più modesto livello, scendendo dalle altezze dell’economia globale (della quale facciamo in ogni caso parte). Renzi cerca una via d’uscita con un compromesso da prestigiatore: restare entro il 3% nel rapporto tra deficit pubblico e pil, ottenere più flessibilità nell’utilizzare le norme e qualche sconto (4-5 miliardi) per evitare una stangata autunnale, una sorta di ponte tibetano verso la ben più robusta manovra per il 2015 (da un minimo di 17 a 25 miliardi, stando alle previsioni). Alesina&Giavazzi sul Corriere della Sera lo hanno invitato a ridurre le imposte per 33 miliardi l’anno, finanziando il taglio con meno spesa pubblica; poiché c’è un gap temporale tra le tasse (che hanno effetto subito) e le spese (i cui effetti si vedono dopo almeno un anno), questo porta a sforare il 3%. Ma con una Francia al 4 e una Spagna al 6, la Ue potrebbe accettarlo a fronte di una politica fiscale coraggiosa che spingerebbe in alto il pil (altro che gli 80 euro).

Non è questa la strada seguita finora da Renzi e nemmeno da Pier Carlo Padoan. Ma non c’è dubbio che la posizione italiana sarebbe molto più forte se, anziché chiedere flessibilità e aggiustamenti parziali, ponesse sul tavolo del negoziato la questione di fondo, quella sollevata da Rajan, adattandola al caso europeo: cioè il vuoto che si è creato in seguito al mancato coordinamento per colmare gli squilibri strutturali. Qui l’Italia può trovare alleati perché parla per tutti (come dovrebbe in quanto presidente di turno della Ue) non solo per se stessa.

Vedremo se in queste due settimane si passerà dal piccolo cabotaggio a una rotta strategica per l’Unione. Ma l’esperienza italiana potrebbe diventare il paradigma di una svolta. Le regole non funzionano. Cambiarle è troppo complicato e politicamente ingestibile. Dunque andiamo al sodo e trattiamo tutti insieme come uscire da questa trappola mortale, quale contributo ogni paese può dare a una politica economica (fiscale e monetaria) coordinata. Ciò non risolve la questione di fondo, ma almeno cerca di portare la nave europea in un porto più protetto dai venti e dai marosi in vista del fortunale che sta per arrivare.

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