La filosofia (del plagio) secondo “True Detective”

La filosofia (del plagio) secondo “True Detective”

C’è un momento, nella prima stagione di True Detective , che anticipa tutto. Anticipa la fase calante della terza puntata, anticipa l’esplosione emotiva del finale di stagione e anticipa il carico di materia ruvida, viscere, sangue raggrumato, acqua di palude e birra in lattina che fa esplodere la mente degli spettatori e venir voglia di incorniciare la serie e appendersela sopra il camino. Di tenersela in casa come un trofeo di caccia, contemporaneamente carico di orgoglio maschio e umano imbarazzo. C’è un momento che incorona Nic Pizzolatto a genio del drama, a maestro del disagio, a signore indiscusso della narrazione televisiva: il primo dialogo tra Rust Cohle e Marty Hart, che chi ha visto la serie dovrebbe conoscere a memoria e chi non l’ha vista sta peccando contro natura. Ecco, è lì che True Detective diventa quello che è. È in quel momento che Hbo deve aver pensato: «Gesù, se non la facciamo noi, perdiamo il trono».

La storia di Pizzolatto è fulminea, ha scritto un romanzo intitolato Galveston — portato in Italia da Mondadori Strade Blu nel 2010 — tradotto in sedici paesi e grondante di Southern Comfort, mutuato da un’infanzia in Louisiana. Ha vinto qualche premio per i racconti, e scritto su qualche rivista. Poi ha battezzato un paio di episodi di The Killing e nel 2012 gli è venuta l’idea da un milione di dollari (forse qualcosa di più, diciamo): True Detective. Quell’idea che se le dai il volto di Woody Harrelson e — soprattutto — di Mathew McConaughey, diventa puro materiale da binge watching. Materia dei sogni, verrebbe da dire. Degli incubi, magari.

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I dialoghi di True Detective, soprattutto quando ad aprire bocca è Cohle/McConaughey, sono qualcosa di etereo e fulminante. Attingono a un immaginario che traccia un filo diretto tra Lovecraft e Lansdale. Sono visioni allucinatorie messe in moto da un linguaggio biblico e blasfemo, apocrifo. Sicuramente aiutano le immagini a spalmare la serie di quella patina di angoscia sudaticcia che riveste lo schermo ad ogni episodio. Detto questo, e premesso che tutto quello che verrà di seguito non inficia il mio giudizio sul prodotto, è dalla prima messa in onda che alcuni angoli del Web si scatenano gridando al plagio.

Nel febbraio del 2014, Pizzolatto rispondeva alle domande dei fan e dei detrattori, sgranando il rosario dei suoi riferimenti letterari. Citava Laird Barron, John Langan, Simon Strantzas e soprattutto Thomas Ligotti. Il primo è uno scrittore weird, inquetante già come persona. I secondi due sono scrittori horror che ogni tanto affiorano dalla superficie del panorama underground americano, evocati più che coinvolti da chi, come Pizzolatto, ha sviluppato il gusto del truce. Ligotti non fa grande differenza, a parte quella di poter contare su qualche Bram Stoker Award in più e un fandom apparentemente più accanito, che da subito ha soffiato sul fuoco delle malelingue.

John Padgett, fondatore del sito Thomas Ligotti Online (nemmeno il beneficio del dubbio, Padgett!) è la “gola profonda” che ha fornito a Mike Davis l’ispirazione e i dati per scrivere l’articolo dello scandalo, su The Lovecraft eZine, in cui si accusa Pizzolatto della ricopiatura integrale di interi dialoghi e — peggio che andare di notte — delle idee. Ora, la mia convinzione, lo scrivo apertamente e certo di muovere polvere, è che se Pizzolatto non si trovasse sdraiato su un comodissimo materasso di milioni, a nessuno sarebbe venuto in mente di riesumare i nomi di un autore che l’umanità non ha mai avuto la necessità di conoscere così a fondo. E il paradosso è che, senza i milioni di Pizzolatto, Ligotti non si sarebbe messo a distribuire copie a destra e a manca, solo perché chi li leggerà avrà in testa le facce di Harrelson e McConaughey. La polemica è sterile, la verità noiosa.

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Le argomentazioni dei fan di Ligotti girano intorno proprio a quei primi dialoghi che hanno deviato il corso della televisione e il cambiato il senso della parola “scabroso”. Nell’articolo di Davis vengono messi a confronto con alcuni brani tratti The Conspiracy Against the Human Race, romanzo del 2010. «Senza quei dialoghi — dice Padgett — la serie non avrebbe potuto aspirare neanche lontanamente al successo che ha raggiunto. Sarebbe rimasta una detective story mediocre, trita e ritrita». Dunque apparterrebbe a Ligotti la paternità di una delle rivelazioni televisive del 2014. Buono a sapersi, perché non è lui quello che in questo momento sta godendosi gli onori e sta accarezzando una nomination agli Emmy. «Ci sono in particolare due passaggi — aveva detto Pizzolatto al Wall Street Journal a febbraio — che ho citato quasi letteralmente, per dimostrare a Ligotti tutta la mia ammirazione». Con tutto l’esoterismo che popola la serie, non mi stupirei se a rivendicare i propri diritti comparisse Chtulu in persona, in nome del compianto Lovecraft — o il Re Giallo di Chambers.

Quello che Padgett e Davis — ma anche chi qualche mese prima aveva sollevato la questione su Arkham Digest — si dimenticano di prendere in considerazione è che i dialoghi a cui fanno riferimento altro non sono che la rimasticazione più o meno diretta di alcune teorie nichiliste che vantano qualche secolo di diffusione. Più eclatante, su questo piano, è la polemica intorno a una delle frasi simbolo della serie, «time is a flat circle », la cui proprietà intellettuale appartiene probabilmente a Friedrich Nietzsche, dato che è tratta da Così parlò Zarathustra. Quindi, qual è il punto? Si può parlare di plagio di un concetto filosofico? Perché in questo caso Pizzolatto è certamente colpevole di aver condito il suo capolavoro di un’abbondante dose di pessimismo nichilista della migliore qualità, che poi abbia fatto la cortesia di attribuirlo a Ligotti è una scelta sua che fa dubitare dei suoi gusti letterari, più che della sua onestà intellettuale.

La questione qui è che, sì Pizzolatto ha maneggiato concetti noti, ha citato apertamente brani di romanzi altrui, a sfruttato riferimenti letterari per caricare True Detective di tensione accessoria e darle una profondità che, forse ma solo forse, altrimenti non avrebbe avuto. Però bisogna dire che oltre questo rimangono due terzi di produzione originale su cui nessuno ha niente da ridire e che la serie è e rimane un pezzo unico, scolpito nel legno spugnoso dei cipressi di palude. Pensino quello che vogliono i detrattori, al mondo non ci sono idee nuove e tutto ripassa per gli stessi punti. Il tempo è un cerchio unidimensionale.

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