La volta che Hemingway ha schiaffeggiato un critico

La volta che Hemingway ha schiaffeggiato un critico

Immaginate l’agosto del 1937, New York, l’ufficio di un editor di Scribner — famoso editore statunitense. Io mi figuro un pomeriggio caldo, con le finestre di un piano molto in alto di un palazzo di Manhattan degli anni trenta semi oscurate dalle veneziane. Magari un ventilatore che ronza, chissà. E Hemingway con i capelli leccati all’indietro, non ancora quarantenne ma già imponente, con tutta quella polvere di guerra e viaggi e sbronze addosso che molla un ceffone a mano aperta in piena faccia a Max Eastman, critico del New Republic reo di avergli spolpato all’osso Morte nel pomeriggio. Poi gli punta addosso il dito autoriale e gli chiede di mettersi a torso nudo e di commentare ad alta voce la condizione dei suoi — pochi — peli sul petto.

«Lo stile di Hemingway è l’equivalente letterario di appiccicarsi peli finti sul petto», aveva scritto Eastman a sostegno di una tesi piuttosto convincente su quanto il riconosciuto padre della letteratura moderna fosse facile a scivoloni di lirismo puro. Certo, non era uno che le mandava a dire e, ammesso che il racconto dell’episodio, apparso sul New York Times, sia del tutto attendibile, leggere la recensione originale diventa tre volte più interessante. Cercando di accantonare il senso di devozione che ottant’anni di storia della letteratura hanno infuso in chi lambisce il mestiere del critico e considerando che all’epoca, a patto di essere disposti a prendersi un cartone nei denti, provocare Hemingway doveva essere piuttosto divertente.

Un passo indietro: il New Republic, periodico pubblicato ininterrottamente dal 1914, apre per tutto il mese di agosto i suoi archivi, riproponendo gratuitamente online cento articoli per festeggiare i cento anni di attività. Tra questi si trova il pezzo di Max Eastman che ha scatenato una delle tante ire di Hemingway.

Va detto, per essere il precursore del minimalismo, la lingua di Hemingway era piuttosto ricca e ogni tanto aveva la tendenza a enfatizzare con gusto le descrizioni. Specialmente se al centro delle descrizioni si trovava lui, cosa che capita praticamente sempre, nei suoi libri. E va anche detto che Morte nel pomeriggio non è, per lo meno nelle intenzioni, un romanzo, ma un pezzo di nonfiction e come tale è stato pubblicato e diffuso. Questo non vuol dire che Eastman avesse tutte le ragioni del mondo nello stroncare il libro, ma sicuramente gli si può riconoscere il beneficio del dubbio e una parte di razionalità indiscutibile. Se poi il critico partiva con un certo senso di disgusto nei confronti delle corride — argomento del saggio — è abbastanza naturale che nel leggere la suprema esaltazione del discutibile passatempo si sia sentito di esternare i suoi sentimenti.

«È cosa nota che i tori non corrono e non galoppano in giro per i pascoli» scriveva Eastman. «Stanno fermi “a dominare il paesaggio con la loro fierezza”, per dirla con la brillante lingua di Hemingway. Quindi, dopo aver gironzolato qualche minuto per l’arena, colpito qualche cavallo, ripetutamente tentato di incornare un uomo e scostato la testa in disappunto dopo che si sono accorti che si trattava di un lenzuolo, si affaticano e si fermano ansimanti con la lingua di fuori. […] Ce ne sono altri che, per varie ragioni, non corrono nemmeno, non si affaticano e non si fermano. Non lasciano di certo penzolare la lingua. Questo fatto, ovvio per chiunque se ne voglia accorgere, è romanzato da Hemingway, che descrive i tori come “talmente coraggiosi da tenere la bocca chiusa per non fare uscire il sangue” dopo essere stati colpiti a morte». Ora, mi sembra evidente che, con tutto il rispetto per chi ha inventato la narrativa americana moderna, Eastman avesse un bel pozzo di esagerazioni sulle quali battere il martello delle proprie tesi. È noto che a Hemingway piacesse leggersi e che mal sopportasse di leggere le opinioni altrui, ma in questo caso un’analisi critica non è fuori luogo. «Non è romanticismo giovanile» continuava Eastman senza mezzi termini, «è scrivere una fiaba per bambini» cosa ovviamente non ammissibile, con la pretesa di stendere un trattato sulle corride.

Eastman lascia un pezzo di critica che chiunque abbia la pretesa di fare questo mestiere dovrebbe conoscere a memoria. C’erano tutte le ragioni, già allora, alla presenza di testimonianze piuttosto colorite riguardo le esplosioni d’ira di Hemingway, per usare particolari cautele nel trattare certi argomenti. Non fosse altro per la prospettiva reale di finire in una rissa con uno che per rilassarsi sparava a felini di quattrocento chili e prendeva appunti in piedi sulle trincee del fronte italiano. C’erano le basi per lasciar perdere. Il merito di Eastman è di essere andato fino in fondo nelle sue convinzioni. Non è un gesto di coraggio, ma di professionalità, quale che sia l’opinione sul libro in questione — io, se devo dirlo, sono abbastanza d’accordo con il New Republic, la fascinazione di Hemingway per il sangue che scorre dopo un po’ resta sullo stomaco.

«Qualsiasi cosa voglia dire, la corrida non è arte per il semplice principio che vuole l’arte come forma di decenza che migliori l’esistenza e dia una speranza di civilizzazione al di fuori della vita reale. La corrida — stupidamente chiamata in inglese bullfight [combattimento col toro, ndr], visto che non assomiglia per niente a un combattimento — è vita reale. Sono uomini che tormentano e uccidono un toro. È un toro, tormentato e ucciso dagli uomini».

Eastman legge in Hemingway la superficialità di un americano che si lascia trasportare dal sentimento generale, senza alcun senso critico verso quello che sta guardando. Gli dipinge addosso, in maniera piuttosto vivida, tutta l’arroganza e il senso di superiorità che anche la storia gli ha attribuito. Prima facendosi cultore di un costume che non gli appartiene, e quindi difficilmente capisce, poi riportandola fedelmente ai lettori statunitensi senza nulla aggiungere se non il senso di esaltazione che «avrebbe un appassionato di baseball nel descrivere una partita». Questa era la sua grande mancanza: essere spettatore senza mai chiamarsi al di fuori, essere protagonista senza mai riuscire a fornire un parere originale. «Ci aspetteremmo, da uno scrittore americano che assiste a una corrida, di trarre di più di quanto possa vedere un adolescente spagnolo, non di meno».

Il critico legge apertamente i limiti dello scrittore, li mette in luce, li sottolinea come dovrebbe. Abbatte le barriere dell’ammirazione — che pur ammette di provare — per inchiodare al muro le imprecisioni e le ingenuità che riporta fedelmente, una per una, a esempio dell’incapacità di un giovane e talentuoso scrittore di discernere tra la tragedia umana e il dramma romanzesco. La critica di Eastman a Morte nel pomeriggio è più che un articolo di giornale, è un esempio di come le cose andrebbero fatte, senza la presunzione di volerle fare da sé.

«Se il signor Eastman è così sicuro della sua abilità, se non ha scritto queste cose solo per impressionare — come pare — allora che si senta libero di sventolare la richiesta di danni e tutte le cause legali che ritiene. Sarò felice di aggiungere mille dollari di tasca mia per darli in beneficenza a chi vuole o di regalarglieli. Poi ci chiuderemo in una stanza e potrà leggermi il suo libro — quello che ha scritto su di me, per lo meno. Be’, chi tra noi due è un vero uomo uscirà sulle sue gambe» è stata l’ultima dichiarazione di Hemingway al Time sulla faccenda. Veri uomini o meno, stanze chiuse o aperte, le cose sono andate così. Qualcuno ne è uscito con orgoglio, qualcun altro meno.

X