Vanilla LatteNella guerra dei caffè alla fine ha vinto Starbucks

Nella guerra dei caffè alla fine ha vinto Starbucks

In principio, furono le “Cola Wars” e le “Burger Wars”, le guerre della cola e degli hamburger. Da qualche anno a questa parte, si sono loro affiancate le “Coffee Wars”, le guerre del caffè. Il campo di battaglia è sempre lo stesso, ed è il territorio del Nord America. I protagonisti, ancora una volta, sono alcuni dei principali brand della ristorazione e le grandi catene a stelle e strisce. A circa un decennio dal suo avvio, la sfida di Dunkin’ Donuts e McDonald’s per rubare lo scettro al re Starbucks per il controllo del mercato nordamericano del caffè, risulta oggi essere più accesa che mai.

Tutto ebbe inizio attorno ai primi anni del nuovo millennio, quando la catena Dunkin’ Donuts decise di avventurarsi nella galassia del caffè, proponendo così bicchieri di “lattes” e altri drink a base di caffeina da accompagnare alle sue celeberrime, dolcissime e coloratissime ciambelle. Una mossa, quella dell’azienda fondata nel 1950 da William Rosenberg a Quincy (Massachusetts) che attualmente conta circa 11mila locali in 33 differenti nazioni, interpretata come un chiaro affronto a Starbucks, da lungo tempo padrone incontrastato di quel settore di mercato. A complicare le cose, nel 2009, la importante discesa in campo di un altro nome assai noto, McDonald’s, una vera e propria istituzione della ristorazione in tutto il mondo, che ha lanciato il guanto di sfida con la sua catena di McCafé e con una massiccia campagna pubblicitaria di contorno.

Gli esperti del settore avevano profetizzato tempi bui per Starbucks, alle prese con la duplice minaccia di Dunkin’ Donuts e McCafé

Gli esperti del settore, con un coro unanime, avevano profetizzato tempi bui per Starbucks, non più in corsa solitaria, ma alle prese con una duplice minaccia. “McCafè cambierà le regole del gioco per il caffè”, aveva annunciato un consulente della Deutsche Bank in un memo consegnato ai clienti, nel quale si consigliava caldamente di vendere le azioni dell’azienda di Howard Schultz. Tutti i fattori sembravano indicare in quella direzione: negli anni immediatamente successivi all’esplosione della crisi economica globale, in piena recessione e con elevati tassi di disoccupazione, era infatti facilmente prevedibile che i consumatori avrebbero preferito abbandonare l’azienda con sede a Seattle, nota per prodotti di qualità a prezzi non esattamente concorrenziali, per gettarsi tra le braccia delle alternative a minor costo, in questo caso rappresentate da McDonald’s e Dunkin’ Donuts. «Le ricerche, in effetti, mostravano che mentre gli acquisti di caffè erano relativamente a prova di recessione – se devi svegliarti al mattino, devi svegliarti – la somma di denaro che i consumatori erano disposti a spendere per ogni visita era probabilmente destinata a crollare in tempi di difficoltà economica», nota il commentatore Paul J. Lim sull’autorevole Money Magazine. «Per questo motivo, McDonald’s e Dunkin’, entrambe rivolte al pubblico delle classi lavoratrici e medie, intravidero un’occasione».

A dispetto delle previsioni, tuttavia, negli ultimi cinque anni tutto ciò non è avvenuto. Anzi, la leadership nel mercato del caffè rimane intatta, e Starbucks resta ancora saldamente al comando. Nonostante aggressive campagne di marketing, trovate pubblicitarie e altre iniziative da parte dei concorrenti, la principale catena di caffetterie ha visto i suoi numeri migliorare, paragonati a quelli dei rivali, con un aumento dell’11% dei profitti nel terzo trimestre fiscale rispetto all’anno precedente, pari a 67 cent per azione su 4,15 miliardi di dollari di vendite.

Dati incoraggianti per la compagnia, che vanno ad affiancarsi alla sua instancabile opera di espansione nel resto del mondo, con 344 nuovi “store” aperti nei cinque continenti in soli tre mesi, e all’annunciato, notevole, futuro investimento sul mercato della Cina – dove ha appena inaugurato, a Xiamen, un locale di quattro piani.

Anziché colpire Starbucks, Dunkin’ Donuts e McDonald’s hanno ottenuto il paradossale risultato di penalizzarsi a vicenda

Per quale motivo, al contrario di pressoché ogni previsione, a dispetto della presenza di due competitor di tutto rispetto e di provata esperienza, Starbucks non ha perso terreno, ponendosi invece come candidato principale per il successo nelle “coffee wars”? Secondo Money, lanciando la sfida al primo in classifica, anziché colpire Starbucks, Dunkin’ Donuts e McDonald’s hanno ottenuto il paradossale risultato di penalizzarsi a vicenda, facendo così il gioco della catena di caffetterie. «McDonald’s può essere in grado di vendere caffè, ma non riuscirà mai a replicare il menù di Starbucks. Il miglior auspicio per McDonald’s per diventare un punto di riferimento del caffè è inseguire il pubblico di consumatori che fa caso ai prezzi», nota il sito The Motley Fool. E quel pubblico di consumatori è, guarda caso, proprio quello di Dunkin’ Donuts, del quale il 60% delle entrate è interamente basato su caffè e bevande – dato piuttosto singolare, per un brand che, come vuole il nome, dovrebbe avere nelle ciambelle, i Donut, il suo cavallo di battaglia. Dunque, il fatto che la crescita dei dati di vendita di Dunkin’ Donuts sia precipitato subito dopo l’ingresso nel mercato dei McCafé è significativo, e lascia indicare che la scelta di McDonald’s di offrire il caffè, di qualsiasi dimensione, a solo un dollaro, abbia colpito principalmente Dunkin’ Donuts, più che intaccare la corazzata Starbucks, che è riuscita così a reggere il colpo in periodi di vacche magre, e che può oggi trarre beneficio anche dal miglioramento generale della situazione economica nordamericana.

Potrebbe però non essere detta l’ultima parola. Almeno, stando ai piani dei vertici del brand delle ciambelle colorate. Il Ceo di Dunkin’ Donuts Nigel Travis ha recentemente radunato le truppe – ovvero i titolari dei locali sparsi per gli States, nel sistema di franchising, a differenza di Starbucks che gestisce direttamente i suoi store – per fare il punto della situazione e per preannunciare un nuovo attacco all’azienda di Seattle. Punti cardine dell’offensiva, prezzi ancora più concorrenziali (non solo sul caffè, ma anche sulle cibarie) e più spazio al “dark roast coffee”, ovvero il caffè che più si avvicina a quello della concorrenza, unitamente a una revisione generale del sistema di premi fedeltà e di raccolta punti, che non ha portato alcun sostanziale beneficio.

Le ultime settimane hanno visto un nuovo lottatore entrare nell’arena: Chick-fil-A

Nel frattempo, le ultime settimane hanno visto un nuovo lottatore entrare nell’arena: è il caso di Chick-fil-A, catena di fast food con sede ad Atlanta, che conta oltre 1.700 ristoranti sul suolo statunitense. Il quale, da qualche giorno a questa parte, ha rottamato il caffè da sempre servito nel proprio menù, per sostituirlo con una specialità prodotta da Thrive, distributore che divide gli introiti direttamente con gli agricoltori: dove è stato testato, in via sperimentale, l’esperimento ha portato a un aumento del 35% nelle vendite. Un nuovo attore nella infinita guerra del caffè, anche se di dimensioni minori.

Una nuova, potenziale minaccia per il primato di Starbucks. Che però, oltre a prepararsi a (ri)lanciare nel proprio menù stagionale, a grande richiesta, il “Pumpkin Spice Latte” (il latte macchiato speziato alla zucca, tra i più richiesti dalla clientela di affezionati), sembra avere pronta una controffensiva. La quale, paradossalmente, non si basa sul caffè, ma sul core business dei due principali avversari: il cibo. I dati dell’ultimo trimestre fiscale, infatti, mostrano un notevole aumento dovuto a quanto offerto per pranzo. Numeri che, prevedibilmente, sono destinati a migliorare ancora, come conseguenza dell’acquisto (avvenuto nel 2012) della catena di panetterie La Boulange e della progressiva diffusione dei suoi prodotti all’interno dei locali. Uno sviluppo del tutto inatteso: mentre tutti tenevano gli occhi puntati sulle “coffee wars”, il fortino di Starbucks non solo ha resistito all’assalto, ma anzi stava già preparando il contropiede. E chissà che non si stesse organizzando, a sorpresa, per dire la sua anche nelle “Burger Wars” e nella “Cola Wars”.

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