Mentre il mondo si occupa di tutt’altro, mentre l’ebola piega l’opinione pubblica con la pressione del dubbio, mentre in Medio Oriente l’instabilità è l’unica certezza rimasta, mentre Obama combatte i suoi demoni di fine mandato, a Williamsburg il vento continua a tirare nella stessa direzione. Di traverso. Per scompigliare i capelli e far volare gli spolverini in un modo gradevole e scombinato, tanto da farmi venire un dubbio.
Inoltrandomi per Bedford Ave, un paio di giorni fa, con la coscienza a posto ma la consapevolezza di trovarmi nel centro esatto del movimento hipster — nell’ombelico di quella Brooklyn che, per non disprezzare, l’universo ignora e che viene replicata in tutte le periferie che vorrebbero gentrificarsi ma qui vive di una concentrazione e di un’arroganza senza rivali — mi sono trovato a pensare alla copertina di The Freewheelin’, di Bob Dylan, 1963. Lo sfondo di un grigio sbiadito che chiama l’inverno è quello di West 4th St, al Greenwich Village, ma i cappotti, le espressioni, il vento che tira di traverso, persino le automobili parcheggiate sono le stesse che popolano Bedford Ave. Il Village di quegli anni si avvicina pericolosamente a quello che immagino avesse in testa Lena Dunham mentre scriveva il libro che le sarebbe valso un anticipo da tre milioni di dollari e che sicuramente voleva tradurre in digitale quando ha inventato Girls. Pensavo a The Freewheelin’ e al Village, a Bob Dylan e al vintage e mi sono chiesto se nel ’63 non avrei giudicato gli hippies che mettevano assieme la loro corazzata di arte povera, come oggi giudico gli hipster che vendono poesie e libri usati per due dollari agli angoli di queste strade. Mi chiedevo se allora sarei passato attraverso McDougal St come passo oggi per Williamsburg, con la mia moralità sempre più reazionaria man mano che invecchio sulla punta della lingua e le mani infilate nelle tasche per fuggire al morso del vento delle novità.
La stessa parola “hipster”, a farci ben caso, è imparentata con quegli hippies del Village. Viene dalla beat e dagli “hip”, alla moda, degli anni cinquanta, ma nel caso degli hippies denota una certa familiarità, un alleggerimento dal punto di vista dell’accanimento estetico, mentre nel caso degli hipster spinge l’acceleratore a fondo corsa. “Hipster”, il più alla moda. Estetica per l’estetica, tanto che viene da domandarsi se ci sia altro oltre a una barba perfettamente proporzionata e agli occhiali di tartaruga. Forse ho sbagliato tutto, mi dico, forse dovrei andare più a fondo con questa gente, perché se somigliano tanto a Dylan e a quel movimento là, magari non cambieranno il mondo ma qualcosa lo lasceranno. Qualcosa che assomigli a Positively 4th Street, per lo meno.
Li osservo, seduto all’angolo di un bar col freddo che mi spazza via la faccia. Li ascolto passare e cerco di cogliere le sfumature negli accenti. Francesi, scandinavi, italiani, tutti parlano un loro inglese sgargiante nei toni e moderato negli argomenti. A un certo punto mi sguscia davanti quello che potrebbe essere un ragazzone californiano, biondo e ampio di torace, con una tavola da surf sottobraccio. È metà ottobre e siamo a New York, l’East River non è così lontano ma nemmeno tanto vicino da andarci a piedi. Non ho idea di come interpretare la scena. Biciclette a scatto fisso con le ruote colorate, altre da corsa ma coi pneumatici spessi come quelli di una mountain bike, motorini elettrici che portano l’insegna No Oil!. Tutti sull’orlo dell’ecologismo e del veganesimo, tutti con un tono nasale e costantemente annoiato. «Dovrei prendere una scopa?», chiede una ragazza bionda coi capelli che le scorrono sotto un berretto di lana appoggiato sulla testa, a quello che suppongo essere il suo ragazzo, seduto accanto a lei sui gradini di una Brownstone, dopo che un camion ha mandato in frantumi una bottiglietta di vetro in mezzo alla strada. «Perché sai, io tengo così tanto all’ambiente». Lo dice, ma non si alza. Non fa nient’altro che buttare giù un altro sorso di birra da un barattolo di conserve.
È così che va: sembra non esserci nulla oltre l’estetica. Per quanto a fondo si possa scavare non c’è un messaggio sociale nella quotidianità di Williamsburg, non c’è una spinta artistica o ideologica che lasci supporre che prima o poi qualcuno dei suoi abitanti produrrà un disco formidabile come è stato The Freewheelin’ o metterà assieme una Factory o correndo sulle strade del Nord della California sarà fulminato dall’intuizione geniale della Pcr e scapperà dal Nobel per andare a fare surf. Qui, sotto la superficie brulicante di “you know” e “like” e “I care” non c’è niente. Un grande, immenso vuoto che si occupa soltanto di se stesso e che si accontenta del suo movimento apparente in un’immobilità straziante. Gli basta avere un nome per sentirsi definito, non ha bisogno anche di uno scopo.
Nel 2012 faceva la sua apparizione al TriBeCa Film Festival una pellicola intitolata The Comedy, per la regia di Rick Alverson, che con la commedia non ha niente a che vedere, se non consideriamo ridicola una quotidianità ossessionata dalle ossessioni come quella hipster. Ossessione per il cibo biologico, ossessione per la meccanica semplice, ossessione per la fotografia sovraesposta. The Comedy non contiene niente di memorabile. Non ha una trama, non ospita attori particolarmente talentuosi, non spicca per la sceneggiatura. Nel suo non essere assolutamente niente, dipinge Williamsburg e i suoi abitanti alla perfezione. La noia di chi ha tutto e non è capace di godersi nulla si riflette nella vita di Swanson — Tim Heidecker — divisa tra un padre miliardario e morente, di cui nulla gli importa, e qualche sonora sbronza con i barbuti amici. Discorsi senza capo né coda, molto simili a quelli che si possono captare tra le bancarelle dell’usato e le officine fai-da-te di Green Point, ragazze attratte da una visione semplificata del socialismo globale che per qualche ragione si risolve in una sorta di ricchezza diffusa («Se fossimo tutti ricchi, saremmo tutti comunisti», dice a un certo punto Swanson alla giovane che presto avrà l’occasione di vedere da vicino l’interno della barca a vela in cui lui vive) e camice aperte fino all’ombelico per una partita di stickball piuttosto noiosa. Non c’è un inizio e non c’è una fine, in The Comedy. Solo un susseguirsi di scene reiterate e sconnesse che assomigliano molto a quella che immagino essere la quotidianità di questa umanità viziata. Le convinzioni degli hipster, spesso contratte in un’unica frase che dovrebbe riassumere una visione della vita ma che ha la valenza di uno slogan pubblicitario, sono solamente il modo di presentarsi al resto del mondo, non hanno necessità di essere tradotte in un gesto concreto. L’apice di questo ragionamento è racchiuso nel bagno di un ristorante — organico, a chilometro zero, costosissimo — di Bedford Ave, dove sulla cassetta del water è attaccato un adesivo che dice “Every effort is beautiful”, ogni sforzo è bellissimo. Peccato che, considerata l’eccezione di ciò che rimane tra noi e il wc, qui nessuno si sforzi di fare nulla se non di produrre slogan che galleggiano sopra un mare di inutilità.
Non so se alla base di tutto ci sia effettivamente la maledizione della ricchezza. Il fatto di poter vivere senza fare niente, di riempire il vuoto lasciato da un’infanzia troppo agiata con una sana iniezione di torpore una volta raggiunti i vent’anni — e spesso ben oltre i trenta — ma quello che non riesco veramente a spiegarmi è la totale assenza di una visione unitaria, che scavalchi la necessità dei calzini a righe sopra i pantaloni bordò. La mancanza di un ideale, sia pure minimo, che non può essere sostituito da questa specie di filosofia rimasticata che si appoggia a idee mai messe in pratica. È facile dire «tengo molto all’ambiente», più difficile è alzarsi e prendere una scopa per pulire la strada. È facile inventare poesie da vendere ai passanti, più difficile è cercare di campare da poeta e questa è una cosa che gli hippies di West 4th St sapevano benissimo. È facile pretendere di essere esteti perché si fa un uso sconsiderato di quello che altri hanno definito come stile, più difficile è mettere assieme una propria visione estetica e imporre il proprio stile a chi verrà dopo di noi — alla fine è questo che lega la copertina di The Freewheelin’ a Williamsburg, con mio grande sollievo. Qui tutto è detto, scritto sulle lavagnette dei café e dei ristoranti, ma niente è tangibile. Cosa che, alla lunga, mi risulta particolarmente fastidiosa.
La verità è che non può esistere una spinta ideologica, senza una vera necessità emotiva, non importa con quanto orgoglio si metta insieme un credo. Nessuno si prende la briga di imparare a coltivare la terra, se non sa sa cos’è la fame. Il massimo che può succedere a Williamsburg — ora ne sono convinto — è che l’accatastarsi di iniziative superficiali riempia il vuoto esistenziale di una generazione, ma per il resto dell’umanità non resterà nulla se non qualche pollo allevato sui tetti e lasciato scappare per mancanza di nozioni agrarie. Perché qui — Quit the Doner, mio compagno di osservazione in questi giorni, lo diceva bene nel suo racconto Apocalypse Venezia — nessuno ha la minima intenzione di prendere il rischio dell’arte, quello che può costringerti alla fame, quello che non ti lascia alternative se non quella di seguire l’aspirazione fino a dove è fatta per arrivare. È il vuoto pneumatico degli ideali, che soffia di traverso, in un maniera che somiglia, ma non è, al vento di Dylan.
Sospiro e mi alzo per trovare un taxi che mi riporti a Bed-Stuy, dove abito. Mi faccio largo tra baschi e cappelli flaccidi, occhiali rotondi e occhiali da sole — sono circa le sei di sera — calzoncini corti e calzettoni da basket al ginocchio, camicie di flanella e maglie Serafino. Tutte cose che somigliano ad altre cose che esistono nella malinconia di chi le indossa. Non vedo altro. Non ci sono persone dentro a questi vestiti appariscenti, non ci sono voci senzienti. Solo un sottofondo sommesso da cui ogni tanto si leva un suono riconoscibile: “Environment”, “organic”, “single-speed ” e via dicendo.
—-
DUE NOTE PREVENTIVE ALL’ARTICOLO
PRIMA NOTA: dire che stare a New York e aggirarsi per Williamsburg è hipster, non salverà gli hipster dal mio giudizio.
SECONDA NOTA: dire che criticare gli hipster è hipster non è un’argomentazione valida, e non fa altro che acuire la mia sensazione di vuoto al di sotto degli slogan. Io, come scrittore, possiedo un senso estetico e lo sfogo nella stesura dei miei articoli. E tanto basta per pulirmi la coscienza.