Storia sentimentale dei NOFX

Storia sentimentale dei NOFX

Come ho iniziato ad ascoltare i NOFX

Non so se è una regola assoluta, ma per me vale quasi sempre: tutte le passioni nascono per un caso, e anche quella per i NOFX non fa eccezione. Era l’estate del 1997, io avevo appena finito la prima liceo e per me i NOFX erano ancora soltanto una delle cento scritte che leggevo sugli invicta (ahh, gli invicta) dei compagni di scuola più grandi.

Chiaro, sapevo che si trattava di un gruppo punk, ma a parte un paio di canzoni da manifestazione — Don’t call me white e The brews per esempio — non avevo idea di chi fossero realmente e non avevo fratelli più grandi a cui rubare le cassette per farmi una cultura.

Non sapevo ancora che era per la loro avversione, purissima e fino ad oggi mai rinnegata, per le major e per i canali distributivi tradizionali che i loro video non passavano su Mtv — quella stessa Mtv a cui devo la scoperta dei primi Blur e dei primi Foo Fighters, per esempio — o che le loro canzoni non le passavano alla radio. E poi era ancora il 1997 e scaricare la musica da internet non era molto diversa da un miraggio da romanzo di fantascienza — Napster (ahh, Napster) si sarebbe diffuso solo l’anno dopo e, in ogni caso, con il mio modem a 56k ci avrei messo un mesetto buono.

Restava comprarsi i loro album alla Ricordi, (ahh, la Ricordi) ma all’epoca l’ultimo uscito era Heavy Petting Zoo e io ero ancora troppo timido e insicuro per portare a casa un album la cui copertina raffigurava una scena di petting spinto tra un ragazzo e una pecora.

Insomma, per conoscerli avevo bisogno di una mano, e non osavo chiederla. E qui arriviamo al caso.

Era l’estate del 1997, dicevo, e arrivato a casa alla fine di una vacanza in un campo del WWF mi ritrovai nello zaino il portacassette di un mio compagno di vacanza che nel suo zaino non aveva spazio e che, al momento di scendere dal pullman — forse a Bologna — si era scordato di riprenderlo.

Fu una bella sorpresa: ben ordinato in un case di plastica pieno di adesivi c’era un piccolo tesoro, almeno per i miei 15 anni. 6 album dei NOFX (Liberal Animation, S&M Airlines, Ribbed, Punk in Drublic, White Trash, Two Heebs and a Bean e Heavy Petting Zoo, mancava solo Maximum Rock ‘n’ Roll) rigorosamente copiati e registrati su 6 musicassette (ahh, le musicassette) da 60 minuti.

All’epoca avevo il walkman, Facebook non c’era, il cellulare ancora non l’avevo e quell’amico di un’estate non l’ho più rivisto, ma quelle cassette le ascoltai per un bel pezzo: fu l’inizio di una passione che ha travalicato i confini temporali della stagione punk adolescenziale e, un po’ come la malaria, di tanto in tanto torna a farsi sentire. Oggi è un esempio di quel “di tanto in tanto”.

Una breve e frammentaria storia dei NOFX

A differenza di quasi tutte le monumentali band della scena musicale mondiale, la storia dei NOFX è decisamente confusa: sappiamo — lo racconta lo “smemorato” Melvin sul loro sito ufficiale — che più o meno iniziarono in tre, Melvin, Fat Mike e Smelly, un giorno imprecisato del 1983, che un altro giorno imprecisato del 1984 scambiarono un pieno di gasolio per la registrazione di una demo fallimentare e “terrificante” (anche questo a detta loro, più precisamente di Fat Mike) e che provarono per qualche un po’ a girare gli States suonando dovunque, anche qui senza grande successo.

Da lì al primo LP, il rude Liberal Animation del 1988, sappiamo che il batterista Smelly si ritirò per almeno un annetto per regolare i conti con la dipendenza dall’eroina, che al suo posto si susseguirono un paio di batteristi, che un chitarrista di nome Dave Allen amico di Melvin prese il posto di Fat Mike alla voce, ma che l’esperimento finì appena due settimane dopo a causa della tragica morte dello stesso Allen in un incidente stradale. Poi, quando Smelly tornò dalla riabilitazione qualche mese dopo (i ricordi di Melvin sono un po’ frammentari e non di rado contraddittori), Melvin lo convinse a tornare nel gruppo e ricominciarono a suonare, e a cercare un chitarrista.

Nel 1989 uscì il loro secondo LP, S&M Airlines, ma la formazione era ancora instabile e qualcosa non tornava. E difatti fino al terzo LP, intitolato Ribbed, del 1991, il problema fu trovare un chitarrista per affiancare Melvin. Se ne alternarono diversi, fino a quando, a San Francisco, il gruppo fece l’incontro decisivo con un chitarrista di origine messicana di nome Aaron Abeyta. Il ragazzo suonava alla grande, sapeva suonare anche la tromba e diventò quasi subito El Hefe, il boss. Fu la carta che chiudeva il punto. Di lì a pochi mesi uscirono due album: un EP intitolatoThe Longest Line e un LP intitolato White Trash, Two Heebs and a Bean, uno dei migliori della loro carriera. Il resto è storia della musica, quanto meno di quella punk.

La straordinaria evoluzione di un gruppo di cazzoni

Siamo al 1992. Sono passati nove anni da quell’imprecisato giorno in cui Melvin, Smelly e Fat Mike provarono per la prima volta insieme, e un sacco di cose sono cambiate: Smelly ha smesso di farsi di eroina e di bere, Fat Mike ha fondato un’etichetta indipendente, la Fat Wreck Records, ma soprattutto è arrivato El Hefe, che ha portato, oltre alla propria simpatia travolgente, alla grande abilità alla chitarra e — un po’ meno grande — alla tromba, una nuova iniezione di stimoli musicali.

Il 1994 è l’anno della definitiva consacrazione: esce Punk in Drublic ed è un successone che in sei anni venderà più di mezzo milione di copie, diventando un vero e proprio classico del punk e facendo ottenere alla band il primo disco d’oro. Stephen Thomas Erlewine, un critico musicale del sito Allmusic.com, lo definisce così:

I quattro non cambiarono per niente il loro approccio, rimanendo in sostanza un duro gruppo punk post hardcore, veloce, confusionario e travolgente, ma la loro capacità di composizione era notevolmente migliorata, così come i loro attacchi. Prima di questo album avevano semplicemente mostrato il loro potenziale, ma con Punk in Drublic l’hanno raggiunto in pieno.

Il capolavoro assoluto: The Decline

Dopo Punk in Drublic escono altri due album che potremmo definire di perfezionamento, Heavy Petting Zoo (1996) e So Long and Thanks for All the Shoes (1998), che come una specie di rincorsa accompagnano la band ad alzare l’asticella del punk di tutti i tempi: è il 1999 ed esce quel gran capolavorone di The Decline, un album di un’unica traccia lunga 18 minuti, che potremmo definire come l’equivalente nel mondo punk di quel che per il rock è stato Shine on you, crazy diamond dei Pink Floyd.

Dalle prime canzoni da un minuto e mezzo di punk hardcore pestato e un po’ cacofonico degli esordi sembrano passati due secoli: Fat Mike e soci sono cresciuti, hanno trent’anni, quasi delle famiglie, e anche se non hanno abdicato al loro proverbiale e totale cazzonesimo (andatevi a vedere la mini serie televisiva NOFX: Backstage Passport e capirete di cosa parlo — e grazie a Faz per avermela fatta scoprire), hanno raggiunto la maturità, sia musicale che politica.

Era il 1999, l’anno prima li avevo visti dal vivo al Palavobis (ahh, il Palavobis) al Deconstruction Tour, tre anni dopo — era il 2002 — li vidi per l’ultima volta a Bologna, all’Independent. Era uscito da un paio d’anni l’ultimo dei loro album che comprai, Pump Up the Valuum. La quarta traccia di quell’album era il loro manifesto politico-musicale: Dinosaurs Will Die. Da allora sono passati 12 anni, e loro non sono molto cambiati: certo, gli sono nati dei figli, ma continuano ad essere degli allegri cazzoni che suonano insieme dai tempi del liceo, continuano a scrivere e pubblicare album (anche se io dopo War on Errorism li ho un po’ persi di vista), ma, soprattutto, non hanno abdicato alla loro purezza.

Dopo 30 anni di concerti, ancora ricapita di sentirli cantare quel manifesto, Dinosaurs will die. E anche se i dinosauri non sono ancora morti, loro sono ancora lì, ad aspettare sulla riva del fiume che passino i loro cadaveri…

Music written from devotion
Not ambition, not for fame
Zero people are exploited
There are no tricks, up our sleeve

Gonna fight against the mass appeal
We’re gonna kill the 7 record deal
Make records that have more than one good song
The dinosaurs will slowly die
And I do believe no one will cry
I’m just fucking glad I’m gonna be
There to watch the fall

Per chiudere, una playlist sentimentale

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