Ucraina, la crisi tappa per tappa

Ucraina, la crisi tappa per tappa

Inizia tutto quando il presidente ucraino Viktor Yanukovich decide di non firmare l’Accordo di associazione (Aa) con l’Unione europea. Un’alleanza commerciale che avrebbe creato una zona di libero scambio tra Bruxelles e Kiev. È il novembre 2013. Molti degli abitanti di Kiev scendono in piazza. La mancata firma dell’accordo con l’Europa viene letta come la scelta del presidente di legarsi a Mosca. Anziché svoltare verso Bruxelles, il capo di Stato decide di stringere i legami con il presidente russo Vladimir Putin, lo stesso con cui poi, a metà dicembre 2013, avrebbe firmato consistenti accordi economici. Lo stesso presidente russo che avrebbe voluto integrare l’Ucraina nel suo progetto di Unione euroasiatica. 
E Piazza Indipendenza diventa in pochi giorni teatro di guerra. 

Piazza Indipendenza, Kiev, nel febbraio 2014 (Afp/Getty Images)

Piazza Indipendenza a Kiev è in breve il simbolo della rivolta di quella parte di Ucraina – giovane, occidentale, dinamica – che chiede di staccarsi dalla Russia e dal passato comunista. Come ha spiegato Stefano Grazioli su Linkiesta si protesta anche per chiedere cambiamento di fronte a una classe dirigente cleptocrate e a un sistema economico oligarchico che ha bloccato lo sviluppo del Paese, lasciando gran parte della popolazione solo con l’illusione di essere uscita dal tunnel del comunismo. 

Per mesi a Kiev e in molte città ucraine ci sono proteste, barricate, scontri a fuoco. Morti. C’è un presidente – Yanukovich – che ordina di sparare sulla sua stessa popolazione. I carri armati russi attraversano il confine ucraino, danno man forte ai moti secessionisti che scoppiano nella parte russofona del Paese. In Crimea, prima. E nell’Est ucraina, dopo. Si parla di una nuova Guerra Fredda. Gli Usa (e con minor forza l’Unione europea) introducono sanzioni contro uomini e banche ucraini e russi accusati di essere i responsabili delle violenze.

Ora, dopo più di sette mesi dalla rivolta di Maidan (Piazza Indipendenza), e mentre al confine con la Russia i soldati ucraini continuano a combattere contro i separatisti favorevoli all’annessione a Mosca, Kiev sta per firmare l’accordo di associazione con l’Europa. Venerdì 27 giugno l’intesa rifiutata da Yanukovich è diventata formale. È successo a Bruxelles dove è arrivato, per la firma, il nuovo presidente ucraino, Petro Poroshenko.

L’Ucraina nel frattempo ha “perso” una parte di terra, la Crimea, divenuta russa. Ha un nuovo governo, guidato da Arseny Yatsenyuk. E un nuovo presidente. 

Come si è arrivati fin qui? Quali sono stati gli snodi principali? Quali i protagonisti del cambiamento?

Li ripercorriamo insieme, punto per punto.

LO SCOPPIO DELLE RIVOLTE

Dopo aver rifiutato di sottoscrivere l’alleanza commerciale con l’Europa, il 17 dicembre il presidente Yanukovich firma un accordo con la Russia che prevede l’abbassamento del prezzo del gas importato da Mosca e 15 miliardi di dollari investiti in titoli di Stato ucraini. Il 24 dicembre la Russia versa i primi tre miliardi di dollari a Kiev.

Viktor Yanukovich incontra Vladimir Putin il 17 dicembre 2014 durante un incontro della Commissione interstatale Russia-Ucraina a Mosca (Getty Images). Qui firma l’accordo commerciale con la Russia.

Le proteste scoppiate a Kiev non si fermano, la gente continua a radunarsi a Maidan, Piazza Indipendenza. Il 21 gennaio entrano in vigore le leggi anti protesta approvate in tutta fretta dal Parlamento ucraino per alzata di mano e senza dibattito. Le norme prevedono che chi partecipa a manifestazioni non autorizzate, chi monta delle tende in un luogo pubblico, chi protesta a volto coperto o indossando un casco, o prende parte a un carosello con più di cinque auto rischia fino a cinque anni di carcere.

Vitali Klitschko tra le barricate di Piazza Indipendenza a Kiev. Klitschko è stato eletto sindaco di Kiev il 25 maggio 2014 (SERGEI SUPINSKY/Getty Images)

Il 22 gennaio la protesta di Maidan ha le prime vittime: tre manifestanti uccisi, due dei quali raggiunti da proiettili. Il 24 gennaio l’opposizione guidata dal campione di boxe e leader del partito di opposizione Udar Vitali Klitschko lancia un ultimatum al governo e iniziano i negoziati faccia a faccia con Yanukovich. Si chiedono elezioni anticipate, abrogazione delle leggi anti protesta e amnistia per i manifestanti arrestati. Altrimenti si «passa all’offensiva».

Il 25 gennaio Yanukovich propone a uno dei leader dell’opposizione Arseny Yatsenyuk l’incarico di premier al posto di Nikolai Azarov. Yatsenyuk rifiuta.

Il 29 gennaio il primo ministro ucraino si dimette e Yanukovich affida a Serhiy Arbuzov, l’incarico di primo ministro ad interim. Il parlamento ucraino abroga con 361 voti a favore e solo 2 contrari le leggi anti-proteste approvate due settimane prima. Il Parlamento approva una legge sull’amnistia a favore dei manifestanti arrestati. Si concede la liberazione dei dimostranti in cambio dell’abbandono di tutti gli edifici occupati e dello smantellamento delle barricate. Ma per l’opposizione è chiedere troppo.

A fine gennaio, con le proteste ancora in corso, la Russia sospende l’attuazione del piano di salvataggio firmato con il presidente Yanukovich a fine dicembre (15 miliardi di dollari). Washington intanto pensa a sanzioni contro il governo di Kiev.

Il 14 febbraio i 234 manifestanti antigovernativi ucraini arrestati nel corso delle proteste delle ultime settimane vengono scarcerati e messi agli arresti domiciliari. Per la liberazione definitiva il governo chiede lo smantellamento delle barricate e l’abbandono degli edifici occupati, come prevede la legge varata il 29 gennaio.
L’opposizione ucraina ribadisce il rifiuto di qualsiasi tipo di compromesso sull’amnistia e intende portare in Parlamento la richiesta di tornare alla costituzione del 2004, basata su poteri più limitati del presidente.

La Russia, che aveva sospeso l’erogazione degli aiuti promessi in dicembre – 15 miliardi di dollari per tenere a galla il governo – riapre i rubinetti il 17 febbraio. Afferma che una tranche degli acquisti di titoli ucraini, del valore di 2 miliardi di dollari, scatterà entro la fine della settimana. È il segnale per molti che Yanukovich ha assicurato a Putin di poter riprendere in mano la situazione nel Paese.

I GIORNI PIÙ BUI DI PIAZZA INDIPENDENZA

Martedì 18 febbraio un corteo di dimostranti tenta di avvicinarsi al Parlamento dopo aver ricevuto la notizia che la proposta di modifica costituzionale avanzata dall’opposizione non è stata messa in agenda. La polizia passa all’attacco e respinge con la forza i manifestanti. Il governo dà un ultimatum per le 18:00 dello stesso giorno ai manifestanti perché lascino la piazza. Da quel momento la polizia inizia un assalto che continuerà per tutta la notte. Gli agenti sono accusati di aver usato fucili caricati con proiettili convenzionali contro i manifestanti, anch’essi in possesso di armi da fuoco.

Kiev, Piazza Indipendenza. Poliziotti ucraini si preparano ad affrontare i manifestanti (Afp/Getty Images)

La sera del 18 febbraio il leader dell’opposizione Klitschko si reca negli uffici presidenziali per cercare una soluzione alla crisi. Tornato a Maidan dopo l’incontro, Klitschko spiega ai giornalisti di aver chiesto a Yanukovych di fermare l’azione della polizia e di prevenire ulteriori morti, ma che l’unica risposta del presidente è stata lo stop immediato alle proteste e lo smantellamento delle barricate. In un discorso rivolto alle ventimila persone ancora accampate in Piazza Indipendenza, Klitschko invita a non abbandonare il terreno. Dopo aver dichiarato l’interruzione dei negoziati con il presidente Yanukovich dopo che quest’ultimo ha chiesto ai manifestanti di abbandonare la piazza incondizionatamente. «Non ce ne andremo da qui», dice l’ex pugile alla folla, «questa è un’isola di libertà e la difenderemo». Il leader dell’opposizione Arseniy Yatsenyuk, intanto, prova a dialogare ancora con Yanukovich.

Il 19 febbraio, mentre Yanukovich concede una tregua ai manifestanti, la Russia blocca di nuovo la tranche da 2 miliardi, parte del prestito di 15 miliardi deciso a dicembre. Nella stessa sera il presidente ucraiano sostituisce il capo dell’esercito – e ministro della Difesa – con il capo della marina militare. La scelta giunge – sostengono le agenzie – dopo che l’ex ministro della Difesa aveva dichiarato di voler attaccare la parte più estremista dei manifestanti. Nello stesso giorno Yanukovich introduce la legge marziale senza l’approvazione del Parlamento. 

Un ferito in Piazza Indipendenza a Kiev il 20 febbraio 2014 (LOUISA GOULIAMAKI/Getty Images)
 

Il 20 febbraio mattina riprendono gli scontri. Alle 10.30 il bilancio è già di 10 morti e dozzine di feriti. Sono i giorni più neri di Piazza Indipendenza. Mentre il Monastero di Mikhailovsky a Kiev si riempie di feriti e vittime degli scontri, e mentre gli atleti ucraini attaccano bandiere nere di lutto ai balconi del villaggio olimpico di Sochi, la comunità internazionale si muove. 

Gli appartamenti degli atleti ucraini nel villaggio olimpico di Sochi. Un filo nero è appeso accanto alle bandiere (Getty Images)
 

L’Alto rappresentante per gli Affari esteri Ue Catherine Ashton convoca un consiglio dei ministri degli Esteri Ue straordinario. I tre ministri degli Esteri di Germania, Polonia, Francia si recano a Kiev e tengono colloqui separati con opposizione e governo ucraini. Il loro obiettivo è di trovare un accordo tra le parti che faccia interrompere gli scontri violenti. Gli Usa intanto bloccano il rilascio del visto di ingresso a 20 funzionari ucraini ritenuti responsabili delle violenze. Lo stesso giorno (20 febbraio) l’Ue approva le prime sanzioni contro i responsabili delle violenze (congelamento dei beni e respingimento dei visti). È di almeno 100 morti e 500 feriti il bilancio provvisorio e non ufficiale degli scontri del 20 febbraio a Kiev. Più tardi, il numero delle vittime verrà corretto a 88 morti. 

LA FINE DI YANUKOVICH

La mattina del 21 febbraio Yanukovich annuncia con un comunicato ufficiale di aver raggiunto nella notte un accordo con i tre ministri Ue. L’accordo prevede elezioni anticipate, formazione di un governo di coalizione in attesa del voto, riforma costituzionale per tornare alla Carta del 2004 con conseguente riduzione dei poteri del presidente. Alle 14:15 circa del 21 febbraio i leader dell’opposizione – dopo essersi consultati con il Consiglio civico di piazza Maidan – affermano che firmeranno il patto proposto da Yanukovich. La conferma ufficiale della firma arriva con un tweet del German Foreign Office.

La firma dell’accordo tra opposizione e governo a Kiev il 21 febbraio

Il 22 febbraio i manifestanti occupano il palazzo presidenziale di Viktor Yanukovich, il presidente di cui si perdono le tracce. Più tardi si saprà che ha cercato rifugio in Russia, nella città di Rostov. 

Yulia Timoshenko, leader dell’opposizione ricoverata in stato di detenzione in un ospedale di Kharkiv dal maggio del 2012 viene liberata. «Oggi l’intero nostro Paese può vedere il sole e il cielo perché oggi la dittatura è caduta. E la dittatura è caduta non grazie ai politici e ai diplomatici, ma grazie a coloro che sono scesi in strada riuscendo a proteggere le loro famiglie e il loro Paese», dice la Tymoshenko giunta in Piazza Indipendenza subito dopo la liberazione.

Yulia Tymoshenko in Piazza Indipendenza a Kiev il 22 febbraio subito dopo la liberazione (BRENDAN HOFFMAN/Getty Images)

Il deputato dell’opposizione ucraina Oleksandr Turcinov viene eletto presidente del Parlamento ucraino ad interim dal Parlamento. Lo stesso Parlamento fissa le Elezioni presidenziali per il 25 maggio 2014

Il 23 febbraio il Fondo monetario internazionale (Fmi) conferma che sarà ripreso il programma di aiuti finanziari per l’Ucraina. Già nel 2010 erano stati erogati 15 miliardi di dollari. L’amministrazione Obama intanto lavora con l’Unione europea a un piano di bailout (iniezione di liquidità per un soggetto in bancarotta o vicino alla bancarotta). Secondo il ministro delle Finanze ad interim Iuri Kolobovkinistro, l’Ucraina ha bisogno di 35 miliardi di dollari in due anni. 
Contro Yanukovych e altri alti funzionari, il Ministro dell’Interno emette un mandato di arresto con l’accusa di «uccisione di massa» di civili.

Da Mosca interviene Dmitry Medvedev, primo ministro russo, che dichiara «dubbia» la legittimità dei nuovi corpi governativi ucraini. «Non sappiamo cosa sta succedendo là. C’è una seria minaccia ai nostri interessi e alla vita dei nostri cittadini. Ci sono grossi dubbi sulla legittimità di un’intera serie di organi ora al potere».

Al leader dell’opposizione Arseny Yatsenyuk, intanto, viene affidato l’incarico di formare il governo provvisorio ucraino.

Arseny Yatsenyuk al Parlamento ucraino il 27 febbraio 2014, poco dopo l’elezione a premier (SERGEI SUPINSKY/Getty Images )

SCOPPIA LA CRISI IN CRIMEA

Domenica 23 febbraio a Sebastopoli, Crimea, scendono in strade circa 2000 manifestanti che hanno aderito all’appello lanciato dai movimenti pro-russi. I dimostranti sventolano bandiere ucraine, russe e della flotta del Mar Nero. «Il nuovo potere vuole privare i russi dei propri diritti e della cittadinanza», dice uno degli oratori dal palco sulla piazza centrale della città. Centinaia di ucraini russofoni si arruolano nelle «brigate popolari» della Crimea per difendere la Repubblica autonoma «se necessario».

Il 25 febbraio i manifestanti di Sebastopoli affermano di non riconoscere il parlamento di Kiev e annunciano di voler organizzare un referendum per staccarsi dall’Ucraina. Lo stesso giorno un blindato russo arriva in piazza Nakhimov, nel centro di Sebastopoli, dove c’è la sede della flotta russa del Mar Nero. La sera precedente viene eletto sindacoAleksei Chaliy, di origini russe. Lo elegge il consiglio dei cittadini in una riunione straordinaria, mentre più di un migliaio di manifestanti si radunano davanti al municipio al grido di «Russia, Russia, Russia» e «Un sindaco russo per una città russa». Vladimir Yatsuba, il sindaco della città scelto da Kiev è costretto a dimettersi. Il 26 febbraio una trentina di persone fa irruzione nel parlamento della Crimea a Sinferopoli sparando contro i vetri dell’ingresso. Toglie dal pennone la bandiera ucraina e issa il tricolore russo.

A Kiev, intanto, il ministro dell’Interno ad interim ucraino, Arsen Avakov, ha sciolto i reparti anti sommossa dei Berkut, la polizia anti sommossa usata nella violenta repressione della protesta di piazza a Kiev. Il 26 febbraio Yatsenyuk diventa premier ad interim con il compito di formare un governo provvisorio. 

Gli ex presidenti ucraini Leonid Kravchuk, Leonid Kuchma e Viktor Iushenko denunciano le ingerenze russe nella vita politica della Crimea, la penisola sul Mar Nero a maggioranza russofona dove molti si rifiutano di riconoscere le nuove autorità di Kiev e migliaia di persone manifestano da giorni a favore della secessione e dell’annessione a Mosca.

Putin ordina l’avvio di esercitazioni militari di 150.000 soldati russi al confine con l’Ucraina, mentre nuovi blindati russi raggiungono Sinferopoli, la capitale della Crimea. Il 1° marzo il ministro della Difesa ucraino, Igor Peniuk, lancia l’allarme: «Mosca ha inviato 6mila soldati in Crimea».

Si alza la tensione tra Mosca e Washington. Il presidente russo Vladimir Putin ha una telefonata di 90 minuti con il presidente Usa Barack Obama. «La Russia si riserva di proteggere i suoi interessi in Ucraina», dice Putin all’americano, che condanna ogni ipotesi di intervento russo. 

Il 16 marzo si tiene in Crimea il referendum per l’indipendenza da Kiev e l’annessione alla Federazione Russa. Il referendum si conclude con il 95,6% di voti a favore. L’affluenza è dell’ 89,5%. Dopo lo scrutinio, l’assemblea regionale della Crimea dichiara l’indipendenza dall’Ucraina e fa richiesta di annessione alla Russia. Il risultato del referendum viene dichiarato illegale da Stati Uniti ed Unione Europea. Gi Usa affermano che il mondo non riconoscerà il voto che si è svolto sotto «minacce di violenza e intimidazioni da un intervento russo che viola le leggi internazionali».

Il 17 marzo il presidente russo Vladimir Putin firma un decreto con cui si prende atto della «volontà espressa dal popolo del Crimea nel referendum del 16 marzo 2014» e si formalizza che da questo momento la Russia riconosce la Crimea come «Stato indipendente e sovrano».

Gli Stati Uniti e l’Europa introducono sanzioni contro funzionari ucraini e russi responsabili della crisi. Nei giorni successivi anche Australia e Canada introducono sanzioni contro ufficiali russi e ucraini.

Il 18 marzo Vladimir Putin si rivolge con un discorso alla Duma per chiedere la votazione della legge costituzionale che annette la Crimea alla Federazione russa. Il 20 marzo la Duma ratifica l’annessione. 

Putin parla nella Piazza Rossa dopo la notizia dell’annessione della Crimea alla federazione russa (Getty Images)

Il 18 marzo il ministro degli Esteri ucraino fa sapere che Kiev non riconoscerà il trattato con cui la Russia annetterà a sé la Crimea. Mentre il ministro degli Esteri britannico William Hague annuncia: «La Gran Bretagna sospende ogni cooperazione militare con la Russia». Lo stesso giorno il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius dichiara che la Russia è sospesa dal G8. «È una minaccia non solo per l’Ucraina ma per l’intera comunità internazionale», commenta i fatti il vicepresidente americano Joe Biden.

Nei giorni successivi le truppe russe prendono il controllo delle basi militari ucraine in Crimea. Il 24 marzo il presidente ucraino, Oleksandr Turchynov, ordina il ripiegamento di tutte le unità delle Forze armate ucraine schierate in Crimea.

INCONTRI KERRY-LAVROV PER RISOLVERE LA CRISI

Il 28 marzo sono «quasi 50.000» i soldati russi ammassati lungo il confine con l’Ucraina secondo le stime dei funzionari del governo Usa citati dal Wall Street Journal. Obama chiede il ritiro delle truppe, Mosca nega. «Niente del genere», riferisce il portavoce del ministero degli esteri Aleksandr Lukasehvich. Il Paese sta per sprofondare in una guerra civile, spaccato tra un Est allineato con lo storico alleato russo e una parte che chiede cambiamenti e avvicinamento all’Europa.

Il 30 marzo il Segretario di Stato John Kerry incontra a Parigi il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov. Si cerca una soluzione diplomatica alla crisi dopo che il Cremlino ha aperto al negoziato con gli Stati Uniti e ha escluso l’invasione dell’Ucraina con queste parole: «Mosca non intende varcare le frontiere dell’Ucraina». 
A Parigi Lavrov chiede la trasformazione dell’Ucraina in Federazione, in modo da garantira maggiore autonomia alle regioni russofone. «L’Ucraina non può funzionare come “stato unificato” – ha detto Lavrov – e dovrebbe essere una federazione di regioni, ciascuna delle quali ha la possibilità di fare scelte autonome in economia, finanza, società, lingua e religione», dice Lavrov. «Né la Russia, né gli Usa né alcun altro possono imporre specifici piani all’Ucraina», risponde Kerry, che chiarisce come gli Usa «continuano a considerare le azioni russe illegali e illegittime». 

La Nato conduce delle esercitazioni aeree nei cieli dei Paesi del Baltico. E il 1° aprile annuncia la sospensione della cooperazione civile e militare con la Russia.

Ai primi di aprile il gigante del gas russo Gazprom annuncia un aumento del prezzo del gas esportato verso l’Ucraina superiore al 40%, ponendo fine al precedente sconto. L’Ucraina pagherà ora 385,5 dollari per 1000 metri cubi di gas. Un aumento rispetto al costo di 268,5 dollari per 1000 metri cubi concordato lo scorso dicembre. Pochi giorni dopo Gazprom annuncia un nuovo aumento. Il prezzo del gas sale a 485 dollari per mille cubi. L’Ucraina consuma circa 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno, e più della metà di questa quantità è importata dalla Russia. 

LA RIVOLTA DELL’EST UCRAINO

Il governo di Kiev prova ad andare incontro alle richieste russe di concedere maggiore autonomia alle regioni russofone e il 2 aprile annuncia l’approvazione di un piano di riforma costituzionale per permettere l’elezione dei governatori locali, al momento nominati dal presidente. 

Ma nei primi giorni di aprile scoppiano proteste nell’Est ucraino. Sull’onda dell’indipendenza della Crimea, separatisti filo-russi chiedono la secessione da Kiev e l’annessione alla Federazione russa di alcune cittadine dell’Est. Gli edifici governativi vengono occupati da manifestanti armati a Lugansk, Sloviansk, Donetsk e altre cittadine.

Una bimba posa con i soldati separatisti che presidiano l’edificio occupato del Palazzo Regionale di Sloviansk (KIRILL KUDRYAVTSEV/Getty Images)

Il 7 aprile viene proclamata la Repubblica di Donetsk. I manifestanti filo-russi che nel week-end avevano occupato il principale edificio dell’amministrazione regionale di Donetsk proclamano la creazione di una «Repubblica popolare» indipendente. E annunciano un referendum entro l’11 maggio sull’annessione a Mosca.

Carri armati dei separatisti a Donetsk il 16 aprile 2014 (GENYA SAVILOV/Getty Images)

Il 10 aprile Kiev promette l’amnistia ai separatisti filo-russi che occupano gli edifici governativi. Ma, alla vigilia dello scadere dell’ultimatum di 48 ore dato da Kiev per l’abbandono delle sedi («Interverremo anche con la forza», ha detto il giorno prima il ministro degli Interni ucraino), i separatisti filo-russi rifiutano. Gli scontri continuano facendo vittime sia tra i soldati di Kiev che tra i separatisti.

OPERAZIONE ANTITERRORISMO DI KIEV

Il 15 aprile inizia l’«operazione antiterrorismo» ordinata dal presidente ucraino Turcinov per contrastare le milizie filorusse che da giorni occupano i palazzi del potere locale nella parte orientale del Paese, nelle due regioni di Donetsk e Lugansk. I soldati ucraini liberano la base aerea di Kramatorsk ed entrano a Sloviansk. Nove città nella regione di Donetsk e una in quella di Luhansk restano occupate da forze russe supportate da agenti locali. Si tratta in particolare di Donetsk (1 milione di abitanti circa), Mariupol (460.000 abitanti), Makiyivka, Khartsyzk, Yevakiyeve, Horlivka, Druzhkivka, Kramatorsk and Slovyansk.

La mappa delle città ribelli pubblicata dalla Bbc il 15 aprile
 

Il 16 aprile i separatisti filo-russi occupano il municipio di Donetsk. La cittadina dell’Est ucraino diventerà insieme a Sloviansk l’epicentro della ribellione contro il governo di Kiev.

I servizi di sicurezza ucraini intercettano gli ordini di alcuni comandanti russi che hanno dato ai separatisti l’ordine di «sparare per uccidere». Il premier ucraino Arseni Yatsenyuk accusa Putin di «sostenere i terroristi» nell’est del Paese.

Gran parte della popolazione locale si schiera con i separatisti, mentre i soldati ucraini ricevono da Kiev l’ordine di non sparare sui civili. Il 16 aprile, presso Kramatorsk, la popolazione locale civile blocca il passaggio dei carri armati ucraini diretti a Sloviansk per combattere contro i ribelli. Lo stesso giorno i sei carri armati vengono sottratti ai soldati ucraini che rientrano a Kiev in pullman. 

Scontri tra ribelli dell’Est e i soldati ucraini scoppiano ininterrottamente nelle settimane successive. Mariupol, Kostiantinivka, Lughansk, Horlivka e altre cittadine della regione orientale si aggiungono all’elenco delle città prese dai separatisti che occupano le sedi dei municipi o dei governi regionali.

Il 28 aprile arrivano dagli Usnuove sanzioni contro personalità e aziende russe vicine a Vladimir Putin, accusato di fomentare e supportare militarmente le insurrezioni nell’Est ucraino. Il giorno successivo arrivano anche nuove sanzioni dell’Unione Europea.

A Ginevra intanto riprendono i negoziati per cercare una soluzione diplomatica alla crisi. Partecipano Usa, Ue, Ucraina e Mosca. Il premier ucraino Yatsenyuk dice di non riporre nessuna fiducia nei negoziati visto che i soldati russi continuano a combattere al fianco dei ribelli nell’Est del Paese. E vieta l’ingresso in Ucraina di tutti i russi maschi di età compresa tra i 16 e i 60 anni.

Il 17 aprile il Segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov annunciano in una conferenza stampa il raggiungimento di un accordo per la de-escalation della tensione in Est Ucraina.

Il governo russo, ricorda il Kyiv Post, non riconosce ancora i membri del governo di Kiev, poiché ritiene che si siano impossesati del potere con un «colpo di stato fascista» che ha destituito l’ex presidente Yanukovych.

Il 2 maggio il Fondo monetario internazionale approva il piano di salvataggio da 17 miliardi per l’Ucraina

Lo stesso giorno a Odessa una manifestazione dei sostenitori del governo di Kiev sfocia in violenti scontri tra secessionisti filo-russi e pro-Kiev. Scoppia un incendio nel Palazzo dei Sindacati e trentotto persone, intrappolate all’interno, rimangono uccise. Secondo alcune ricostruzioni, ad aver appiccato l’incendio sarebbero stati estremisti di destra dopo aver visto un gruppo di manifestanti filo-russi cercare rifugio dentro al Palazzo.

Funerali delle vittime dell’incendio della Casa dei Sindacati a Odessa (ANATOLII STEPANOV/Getty Images)

Il 7 maggio i soldati ucraini riescono a riprendere il municipio di Mariupol dopo duri scontri con i ribelli. 

Il 10 maggio nelle città occupate della regione di Donetsk e di Luhansk, Est Ucraina si tiene il referendum per la secessione dall’Ucraina e per la creazione di uno stato semi-indipendente dal governo centrale di Kiev. Il referendum è dichiarato “illegale” da Kiev e dalle potenze occidentali. In settimana Vladimir Putin ha chiesto ai separatisti dell’Est ucraino di posticipare la data dell’appuntamento elettorale. Ma i filo-russi hanno deciso di andare comunque al voto. 

L’89,07% ha votato a favore dell’indipendenza dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk. Nella regione di Luhansk, invece, il 96% degli elettori «ha votato a favore della federalizzazione della regione. Si attende la presa di posizione di Mosca. Potrebbe accogliere il voto delle due repubbliche come fatto con la Crimea e deciderne l’annessione alla Federazione russa.

LA FIRMA DELL’ACCORDO COMMERCIALE UE-KIEV

All’indomani del voto indipendentista di Donetsk e Lugansk, Mosca dichiara che i referendum separatisti di Donetsk e Lugansk hanno dato «risultati convincenti» e che la legittimità delle presidenziali ucraine «non è completa». Ma il presidente della Duma russa, Serghiei Narishkin, afferma anche che «non svolgere le elezioni (le Presidenziali ucraine del 25 maggio, ndr) sarebbe persino più triste» e che «quindi è necessario scegliere il minore dei due mali».
Nonostante l’apertura di Mosca a Kiev, i separatisti dell’Est non lasciano gli edifici occupati e gli scontri con i soldati di Kiev continuano. 

L’oligarca Rinat Akmetov, originario di Donetsk, prova a usare il potere economico di cui gode per porre fine alle minacce dei separatisti. «Faccio appello a tutti i dipendenti del Donbass di partecipare a proteste pacifiche nelle aziende per cui lavorano. Le manifestazioni inizieranno domani a mezzogiorno, quando una sirena suonerà in tutte le indistrie del Donbass a favore della pace e contro lo spargimento di sangue».

Il neo eletto presidente ucraino Petro Poroshenko (Getty Images)
 

Il 25 maggio si tengono in tutto il Paese le elezioni Presidenziali. La presenza di edifici ancora occupati nell’Est non ne impedisce lo svolgimento. Petro Poroshenko, l’oligarca noto come «il re del cioccolato» produttore dei cioccolatini Roshen vince con oltre il 55% dei voti. Yulia Tymoshenko, la leader della Rivoluzione arancione del 2004, ottiene solo il 12% dei voti. Appena eletto, il neo presidente ucraino rafforza le «operazioni antiterrorismo» nell’Est del Paese.

Il 20 giugno Petro Poroshenko annuncia un piano di pace in 14 punti per la soluzione della crisi politico-militare in corso nell’est del Paese. Lo stesso giorno, il presidente ucraino annuncia un cessate il fuoco da parte ucraina nell’Est del Paese per sette giorni. 

Lunedì 23 giugno uno dei leader separatisti, il premier dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, Aleksandr Borodai, annunciando una mini-tregua nei combattimenti in risposta al cessate il fuoco di Kiev. 

Il 24 giugno però riprendono gli scontri. Un elicottero dell’esercito di Kiev viene abbattuto nei cieli di Sloviansk. Le vittime sono nove.  

Il 26 giugno a Strasburgo il presidente ucraino Poroshenko esorta la Russia ad appoggiare il piano non solo a parole ma anche con i fatti. Secondo il capo dello stato di Kiev dalla Russia continuano a giungere armi e finanziamenti ai separatisti. Nella stessa sede Poroshenko illustra i punti salienti del suo progetto di decentralizzazione per venire incontro alle esigenze delle regioni orientali: i governatori verranno eletti localmente e, anche se l’unica lingua ufficiale rimarrà l’ucraino, sarà possibile per i russofoni e le altre minoranze utilizzare l’idioma preferito.

Il presidente ucraino Petro Poroshenko posa con il presidente della Commissione europea Manuel Barroso e il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy a Bruxelles il 27 giugno 2014 (STRINGER/Getty Images)
 

Il 27 giugno Petro Poroshenko firma a Bruxelles l’Accordo di associazione tra l’Ucraina e Bruxelles. L’intesa è stata sottoscritta, nel corso di una cerimonia al vertice Ue, dal presidente Petro Poroshenko e dai leader dei 28. Lo stesso tipo di accordo è stato concluso anche con Georgia e Moldavia.

«È un giorno storico per il mio Paese. Il più importante dall’indipendenza», dice Poroshenko. Poi, mostrando una penna, il presidente aggiunge: «non è accaduto a Vilnius a novembre, ma questa è la stessa penna, a dimostrazione di come gli eventi storici siano inevitabili». 

Da Mosca interviene il vice ministro degli Esteri russo Grigori Karasin, che dice: L’accordo avrà «gravi conseguenze».

Martedì 1 luglio il presidente Poroshenko annuncia la fine del cessate il fuoco. Ma i ribelli ucraini non hanno deposto le armi e gli scontri sono continuati nell’Est. Il Presidente decide di riprendere le «operazioni anti-terrorismo» nelle regioni ribelli.

VENTI DI GUERRA RUSSIA-OCCIDENTE

A metà luglio, il volo della Malaysian Airlines MH17, in viaggio da Amsterdam a Kuala Lumpur, è stato abbattuto mentre volava sopra il territorio Ucraino. La colpa è stata addossata ai ribelli filo russi. L’Europa e gli Stati Uniti annunciano un terzo round di sanzioni contro la Russia, accusata di aver loro fornito le armi.

Ai primi di agosto, le forze ucraine accerchiano la città di Lugansk. I rifornimenti di energia e di acqua della città scarseggiano e mentre, negli stessi giorni si verificano nuovi scontri a Donetsk, un report delle Nazioni Unite dichiara che ogni giorno oltre mille civili abbandonano l’area.

Il 6 agosto, il presidente russo Putin risponde alle sanzioni mettendo sotto embargo le importazioni di frutta, verdura, carne, pesce e latticini.

A metà agosto un  gruppo di veicoli russi entra in Ucraina senza autorizzazione. La Russia dichiara che i veicoli servono a portare aiuti umanitari per la città di Lugansk, mentre secondo l’Ucraina si tratta di una “invasione diretta”.

Il 26 agosto, Putin incontra Poroshenko in Bielorussia in un tentativo di riaprire il dialogo per raggiungere un cessate il fuoco nelle regioni orientali dell’Ucraina. E’ il loro primo colloquio diretto da inizio giugno. Il presidente Petro Poroshenko ha inoltre decretato lo scioglimento del parlamento ucraino (la Rada); le elezioni anticipate si terranno il 26 ottobre.

Il 2 settembre i ribelli filo-russi sono tornati ad avanzare nell’est dell’Ucraina, riprendendo il controllo dell’aeroporto di Lugansk. La Nato sarebbe pronta a schierare 4000 uomini a sostegno dell’Ucraina. Nel frattempo, l’Europa sta preparando un nuovo pacchetto di sanzioni per Mosca, tra cui ci sarebbe anche il divieto di acquisto di bond russi. Il New York Times sottolinea che, nonostante gli effetti della crisi Ucraina sembrino aver avuto un impatto maggiore sull’economia europea, l’ambizione di Putin sta danneggiando in misura maggiore i mercati russi, anche perché, secondo il Financial Times, l’Europa è in grado di affrontare l’inverno anche senza il gas russo, mentre per la Russia l’Europa rappresenta un mercato troppo importante. Secondo altri osservatori, la vera ambizione russa è quella di riunire le molte etnie “disperse” dopo il collasso dell’Urss. In sostanza Putin vorrebbe riunificare il grande popolo russo.

Nel frattempo l’Europa pensa a nuove sanzioni da aggiungere al pacchetto approvato un mese fa. Non solo. Secondo il Financial Times l’Occidente è pronto anche a boicottare i Mondiali di calcio in Russia del 2018. Se ne parlerà, tra le altre cose, durante il vertice Nato in programma in Galles il 4-5 settembre. La situazione è preoccupante: secondo un rapporto segreto dell’Alleanza atlantica pubblicato dallo Spiegel online se la Russia decide di accelerare le operazioni l’Ucraina è comunque destinata a cadere in poco tempo.

IL CESSATE IL FUOCO

Il 5 settembre, in concomitanza con il vertice Nato e la minaccia di nuove sanzioni, l’ex presidente ucraino Leonid Kuchma, il rappresentante dei separatisti Alexander Zakharchenko, l’inviato Osce Heidi Tagliavini, l’ambasciatore russo Mikhail Zurabov e il leader dei ribelli di Lugansk Igor Plotnitsky si sono incontrati a Minsk e sono finalmente arrivati a un accordo. I punti stabiliti per la tregua includono: le condizioni del cessate il fuoco, lo scambio dei prigionieri, le regole per monitorare l’armistizio. Per quanto riguarda le sanzioni economiche, dal vertice Nato viene fatto sapere che queste sono direttamente collegate all’esito degli accordi.

NUOVE SANZIONI

La sera di lunedì 8 settembre l’Unione Europea ha approvato un nuovo pacchetto di sanzioni nei confronti di 15 importanti imprese russe. Gli ambasciatori dei 28 Paesi membri dell’Ue hanno annunciato che il provvedimento rimarrà in stand by fintanto che il cessate il fuoco in Ucraina reggerà. É il quarto round di una serie iniziata nel marzo 2014 con l’invasione russa della Crimea e continuata nei mesi successivi con l’estendersi degli scontri nella regione del Donbass. Le misure inserite in questo nuovo pacchetto sono le più dure dall’inizio della crisi Ucraina. Ad essere colpite sarebbero, infatti, aziende di importanza vitale per l’economia russa. Rosneft, Gazpromneft e Transneft i nomi più importanti: le prime due produttrici di petrolio e la terza nel campo delle pipeline di greggio. Restano fuori per adesso le industrie del gas come Gazprom. Le misure punitive consistono nel divieto imposto a società e governi occidentali di acquisire azioni delle aziende sanzionate, e più in generale un blocco dei finanziamenti verso di esse.

In passato, le risoluzioni adottate dall’Ue entravano in vigore entro poche ore dalla loro approvazione. Questa volta, una parte dei rappresentanti ha optato per una linea attendista. All’interno dell’Unione, infatti, i singoli Stati hanno interessi differenti nei confronti della Russia. Alcuni, come la Finlandia alla testa dei moderati, hanno subito le contro-sanzioni russe in maniera pesante. Mosca aveva infatti risposto alle precedenti misure europee con un embargo verso i prodotti alimentari provenienti dai paesi sanzionatori. Altri, come Italia e Germania, sono semplicemente attenti a rovinare il meno possibile i rapporti con il loro fornitore principale di gas. Come si era capito in occasione del vertice Nato in Galles, in Europa sono in molti (preoccupati per le economie domestiche) a voler aspettare il più possibile a muoversi contro la Russia. La quale nel frattempo fa sapere, attraverso il primo ministro Medvedev, che: «Se ci saranno nuove sanzioni, dovremo rispondere. Se sono legate al settore energetico o a ulteriori restrizioni nel settore finanziario, dovremo rispondere asimmetricamente». Affermazione ambigua, che va da una risposta economica come potrebbe essere la chiusura dello spazio aereo russo, fondamentale per le tratte verso l’estremo oriente, alla minaccia di nuovi interventi militari in Ucraina. Dove intanto il cessate il fuoco, cominciato la sera del 5 settembre, inizia a vacillare. I 14 punti stabiliti dal governo ucraino e i rappresentanti dei filo-russi a Minsk includono: L’immediata interruzione degli scontri, maggiore autonomia dei governi provvisori delle province autonome di Donetsk e Luhansk, liberazione immediata degli ostaggi da entrambe le parti, Inizio del processo atto a stabilire nuove elezioni a Donetsk e Luhansk, monitoraggio del confine Russo-Ucraino e creazione di una zona di sicurezza, rimozione di gruppi armati illegali dal territorio ucraino.

Ma questo accordo, voluto da Putin anche per mischiare le carte in coincidenza del vertice Nato e offrire il destro ai Paesi europei più titubanti, dopo i primi due giorni dalla firma inizia a vacillare. Se da una parte arrivano note positive sullo scambio di prigionieri (Poroshenko parla di 1200 soldati ucraini rilasciati), dall’altra le ostilità sono ricominciate con il bombardamento dell’aeroporto di Donetsk nella notte di lunedì 8 settembre e con la morte di 4 soldati ucraini nell’Est del Paese. La tensione diplomatica rimane alta, con la Nato che ha annunciato la creazione di cinque basi nei Baltici, in Polonia e Romania e le parole forti di Mosca che pone come condizione imprescindibile l’esclusione dell’Ucraina dalla Nato. Intanto si registrano esercitazioni navali congiunte Usa-Ucraina nel Mar Nero. La situazione, nel complesso, è tutt’altro che stabile e la sensazione è che Putin stia giocando con un’Unione Europea indecisa, continuando a sostenere di dialogare con Poroshenko e mantenendo allo stesso tempo un atteggiamento aggressivo in Ucraina.

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