Dall’Asia all’Italia, le nuove pene di Marchionne

Dall’Asia all’Italia, le nuove pene di Marchionne

Con la quotazione a Wall Street si è chiuso il ciclo storico della Fiat. Sergio Marchionne ha raggiunto un obiettivo che si era posto fin dall’abile e rocambolesca acquisizione di Chrysler senza metterci un centesimo. Adesso si apre una fase completamente nuova. Tra meno di quattro anni dovrebbe uscire di scena il manager dal maglioncino nero che, come scrive il Wall Street Journal, ha dato nuova vita a due moribondi, l’italiana Fiat e l’americana Chrysler. Di qui a quel momento, il nuovo gruppo cambierà ancora. Come? Ogni giorno ha la sua pena, dice il proverbio; le nuove pene per FCA sono almeno cinque alle quali si aggiunge una sesta tutta squisitamente italiana.

1) Trovare nuovo capitale è l’obiettivo principale, premessa per ogni altra avventura. Dunque, bisogna convincere fino in fondo gli investitori americani e quelli internazionali. L’esordio a Wall Street è cominciato in grande, ma poi si è ridimensionato. Sul mercato americano regna l’incertezza, dopo anni di boom c’è timore di una nuova bolla e gli esperti prevedono una caduta del 10% (anche se ne azzeccano mai una, i guru continuano imperterriti). Marchionne farà un road show tra i fondi di investimento con l’obiettivo non solo di tirar su nuovi quattrini, ma di consolidare e diversificare l’azionariato. Oggi Exor della famiglia Agnelli ha il 30% dei titoli e il 45% dei diritti di voto; non recita la parte dell’investitore passivo, ma non ha risorse sufficienti per gli ambizioni propositi di Marchionne: 7 milioni di auto (dai 4,4 dello scorso anno), 60 miliardi di investimenti con 30 nuovi modelli per restare nel gruppo di testa, insieme a quelli che riescono a sopravvivere in una industria tra le più cicliche dove si fanno tanti soldi e se ne perdono forse ancora di più.

2) Per attirare nuovi investitori bisogna ridurre i debiti che ammontano a circa dieci miliardi di euro. Marchionne, però, intende emettere bonds, quindi farà nuovi debiti: ha detto chiaramente che farà ricorso al mercato finanziario e si è parlato di un prestito convertendo di un miliardo e mezzo. Se ne dovrebbe discutere nel consiglio di amministrazione il 29 ottobre. Il rating della Fiat è molto basso (a livello di junk bonds), il top manager ritiene che sia una valutazione ingiusta e inadeguata e spera che l’operazione Wall Street possa migliorare il giudizio delle agenzie. Ma cammina su un ghiaccio sottile. 

3) FCA è l’unica vera multinazionale dell’auto (tutte le altre restano legate alle loro radici), però non è ancora globale, manca l’Asia mentre in Europa è debole se non addirittura marginale. Dunque, bisogna cercare nuovi alleati. L’ingresso in Cina non è riuscito e a questo punto sembra molto più difficile. Si parla di mettersi insieme a un altro produttore asiatico e circola il nome di Hyundai, ma ci sono anche Suzuki e Mazda con i quali Fiat ha già accordi industriali. Qualcosa di più chiaro emergerà nel prossimo futuro. Per l’Europa si parla di nuovo della Peugeot, che è messa male, tuttavia in questa fase tutti guardano a tutti, perché l’unica cosa certa è che in Europa avverrà un consolidamento massiccio e doloroso per i lavoratori che perderanno il posto e vedranno ridursi ancora i salari. Ci sono troppi produttori generalisti in un mercato non più soltanto saturo, bensì declinante. Questa sarà la prossima drammatica tappa nella metamorfosi dell’auto mondiale, meglio prepararsi al peggio. Persino la VW, che pure continua a vendere bene (soprattutto Audi), verrà coinvolta: ha una redditività bassissima, attorno al 2% ed è ricominciato il dialogo con i sindacati per aumentare la produttività. In queste condizioni il gruppo tedesco potrebbe guardare persino a un’alleanza con la vecchia nemica Fiat che a metà degli anni ’80 le soffiò il primato.

4) I rischi della nuova congiuntura sono molto alti. Gli Stati Uniti hanno visto un vero boom nell’ultimo quinquennio, che Marchionne ha colto e grazie al quale ha potuto fondere Fiat con Chrysler. Si dice che prima Fiat ha salvato Chrysler poi è accaduto il contrario, ed è vero. Oggi c’è il timore che possa scoppiare la bolla dell’auto sostenuta da credito facile fino all’impiego di supbrime (cioè prestiti a chi non ha nessun merito di credito). L’Europa occidentale è sull’orlo di una vera depressione. Mentre quella orientale rallenta, così come la Cina e con essa l’Estremo Oriente. Il Brasile infine attraversa una recessione. Espandere produzione e vendite in questo clima è una scommessa ai limiti dell’azzardo.

5) Come sarà, di qui all’uscita di Marchionne nel 2018, l’assetto azionario di FCA? Che fine faranno gli Agnelli? Exor dovrà restare ancora l’azionista di riferimento, ma cerca alternative consistenti all’auto e ai veicoli industriali che restano le sue principali attività. Gli Agnelli avranno un destino come quello dei Ford o dei Rockefeller per i quali i business storici, auto e petrolio, sono ancora importanti, ma non prevalenti. Ci si interroga se la passione editoriale di John Elkann lo porterà a replicare nell’informazione quel che è successo nell’automobile trovando un partner internazionale. Finora Rcs ha dato soprattutto grattacapi e delusioni, una eventuale alleanza lo vedrebbe come partner debole. Occorre fortuna e virtù. La seconda serve per cogliere la prima come è successo con Chrysler.

6) La fine della Fiat così come l’abbiamo conosciuta e la nascita di un nuovo gruppo suscita ancora polemiche e passione in Italia. Tra rimpianti per il passato, incognite per il futuro e profonde incertezze sul presente. Con l’americanizzazione si compie un destino cominciato un secolo fa quando Giovanni Agnelli andò a Detroit a visitare la prima catena di montaggio della Ford e decise di introdurla anche in Italia. La Fiat venne salvata dai prestiti americani evitando così la Grande Depressione degli anni ’30. E ancora nel 1945 dai liberatori a stelle e strisce. C’è la storia di Vittorio Valletta e dei suoi legami politici (e massonici) con gli Stati Uniti. C’è l’Avvocato, il suo appartamento a Manhattan, i Kennedy, Nelson Rockefeller, Henry Kissinger. Da tempo gli Agnelli hanno cercato di liberarsi dell’auto, che ha fatto la loro fortuna, ma è diventata una sorta di prigione. Quando nel 1999 Gianni disse no alla Daimler, cercò una sposa americana. Si illuse che fosse General Motors, il destino ha voluto che tornasse in ballo quella Chrysler rifiutata vent’anni prima. Ma l’America è sempre stata il grande punto di riferimento di una dinastia piemontese che ha cercato disperatamente di scrollarsi di dosso la provincia. Così facendo, si dice, ha abbandonato, anzi tradito l’Italia. Eppure quella Fiat che faceva politica in prima persona, anche politica estera, non c’è più perché non c’è più l’Italia che la sosteneva. È finita nel 1992 con il crollo della lira e il collasso della prima repubblica. E nessuno nella generazione dei rottamatori renziani l’ha mai conosciuta, nessuno ha mai visto nemmeno Mirafiori né come “fabbrica caserma” alla Valletta né come “fabbrica laboratorio” delle Brigate Rosse. Sulla Fiat e sul suo ruolo, gli italiani sono sempre stati divisi. Oggi come oggi prevale chi pensa che i contribuenti hanno gettato troppi quattrini nelle tasche degli Agnelli o nel pozzo del Lingotto. La storica classe operaia, del resto, è stata dispersa dalla crisi o trafitta dall’ineluttabile freccia del tempo. Quanto a Torino, sta trovando una nuova dimensione molto meglio di Detroit. Nella nuova Italia che prova a riemerge dalle ceneri, dunque, non tutto è da buttare.

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