L’Ilva di Taranto, la ThyssenKrupp di Terni, la Lucchini di Piombino. Le tre grandi partite della siderurgia italiana sono ancora aperte. Ieri, 7 ottobre, Terni e Taranto sono state citate dal premier Matteo Renzi nell’ora scarsa di incontro con i sindacati prima della fiducia al Jobs Act. Assieme al sito di Termini Imerese (Palermo) sono state definite “le tre T di cui dobbiamo occuparci insieme”. E sul significato del termine “occuparci”, basti pensare all’incontro che c’è stato, sempre il 7 ottobre, presso il ministero dello Sviluppo economico, tra governo, sindacati e ThyssenKrupp. Ovvero con l’azienda che, a Terni, prova da tempo a vendere le acciaierie senza riuscirsi, ed è nel mezzo di una mediazione per evitare la messa in mobilità di almeno una parte dei 550 dipendenti del sito. Per le altre due grandi malate della siderurgia italiana la prospettiva di una vendita è più concreta. L’Ilva del disastro ambientale, della corruzione e del commissariamento è sul punto di passare di mano dai Riva al gruppo indiano Arcelor Mittal. Può rientrare nella partita anche un altro gruppo indiano, Jindal, che da mesi si dice intenzionata a comprare le acciaierie di Piombino e che da metà ottobre dovrebbe siglare un accordo preliminare di vendita.
Ma che futuro hanno i tre stabilimenti a rischio? La prima analisi sugli stabilimenti parte dal principale, quello di Taranto.
Ilva, la partita per il controllo
Per il sito dell’Ilva di Taranto, commissariato da oltre un anno, la strada più probabile è quella di un’acquisizione da parte della società franco-indiana Arcelor Mittal, accompagnata dalla società Marcegaglia. Per l’acquisto dello stabilimento – di cui l’area a caldo è sottoposta ancora a sequestro – si sarebbero fatti avanti altri quattro soggetti, come detto nei giorni scorsi dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. Con Arcelor Mittal, dice a Linkiesta Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, un passato proprio all’Ilva di Taranto, «i tempi purtroppo si stanno allungando, considerando che la trattativa è entrata in una fase stringente. Il rischio è che le risorse entrate dal prestito ponte vengano bruciate. Il governo dovrebbe accelerare. D’altra parte Mittal si rende conto che più passa il tempo più le conviene». Il prestito ponte erogato dalle banche è stato di soli 250 milioni di euro, di cui effettivamente consegnata per ora solo la prima tranche da 125 milioni di euro, contro una richiesta da parte dell’azienda di circa 600 milioni di euro. «Di sicuro a questo ritmo di perdite non arriviamo alla fine dell’anno», dice Palombella.
Tutta da giocare anche la partita del numero di lavoratori che rimarranno nell’Ilva. Il piano industriale del precedente commissario dell’Ilva, Enrico Bondi, poi rigettato, spiega Palombella, prevedeva 8 milioni di tonnellate di produzione e un livello di occupazione pari a quello attuale». Ora il nuovo piano sarà redatto dal nuovo acquirente. «Quello che chiediamo è che lo stabilimento mantenga gli attuali 12mila dipendenti, a cui si sommano i 5mila dell’indotto». La salvaguardia dell’intera occupazione è stata anche una richiesta avanzata dall’attuale commissario Piero Gnudi e dal governo. Potrebbe essere la contropartita richiesta nel caso si vada verso una svendita o addirittura verso una cessione a costo zero.
Se Arcelor Mittal se la prende comoda è perché il secondo pretendente che si è palesato è un altro gruppo indiano, Jindal, che in queste stesse settimane sta trattando l’acquisto delle acciaierie di Piombino, non dà l’impressione di crederci troppo. Dopo l’interessamento dell’inizio di settembre e la visita allo stabilimento della fine dello stesso mese, non sembra esserci stata una successiva mossa concreta. «Non so se sia un’offerta realistica – dice Palombella -. Non esprimo un giudizio di preferenza. Ma mi sembra più un’azione di disturbo. In passato fecero delle richieste di informazioni anche per Alcoa, ma non andarono avanti».
Uno dei problemi di Jindal riguarda le dimensioni. «Non ha un grande patrimonio per fare investimenti» spiega a Linkiesta il responsabile dell’ufficio studi della rivista di settore Siderweb, Gianfranco Tosini. Il patrimonio netto dell’azienda è di circa 2 miliardi di euro, mentre la capacità produttiva totale è di circa 11 milioni di tonnellate. Il solo investimento per la Lucchini di Piombino, che può produrre fino a due milioni di tonnellate di acciaio l’anno, non è indifferente. Altro discorso varrebbe per l’Ilva di Taranto, che di milioni di tonnellate ne può produrre otto.
Il prezzo di acquisto dell’Ilva, in sé, oggi non sarebbe un ostacolo insormontabile. Il patrimonio netto, ha spiegato Tosini di Siderweb, nel 2011 era di 2,4 miliardi di euro. Presumibilmente oggi – dal 2011 non c’è un bilancio dell’Ilva – potrebbe essere sceso a 1,5 miliardi. Ma la redditività oggi sarebbe pari a zero. «Considerando una valutazione con un sistema misto patrimoniale-reddituale, si potrebbe arrivare a un valore intermedio di 700 milioni. Le indiscrezioni sulle offerte arrivate finora sono di circa 5-600 milioni, non troppo distanti da questi calcoli». Ma l’investimento, per chi compra, sarebbe molto superiore. Andrebbero messi in conto almeno uno o due miliardi di euro per investimenti tecnologici, dato che si deve lavorare sull’efficienza, e gli 1,8 miliardi di euro per il risanamento ambientale previsti dall’Aia. Si supererebbero i 3,5 miliardi di euro, anche se per buona parte degli interventi ambientali potrebbero essere utilizzati i soldi della famiglia Riva. È stato il commissario all’Ilva, Piero Gnudi, a chiedere di accedere alle somme (1,2 miliardi) sequestrate ai Riva per reati valutari e fiscali. Toccherà al gip di Milano, Fabrizio D’Arcangelo, dovrà pronunciarsi sull’istanza, il prossimo 17 ottobre. Questi soldi finirebbero per legge nel capitale della società.
Le ipotesi di 5-600 milioni messi sul piatto dell’Ilva sembrano oggi troppo ottimistiche. Secondo indiscrezioni riportate dal Corriere della Sera, il prezzo di offerta potrebbe avvicinarsi allo zero o risultare perfino negativo. Questo perché andrebbero considerati i debiti a medio lungo termine che si attestano sul miliardo e mezzo, e una perdita operativa che in questo momento si aggirerebbe sui 60 milioni al mese.
Il piano di Arcelor-Mittal e Marcegaglia
Il piano industriale di Arcelor Mittal non è ancora noto. Ma il quotidiano TarantoOggi, come riporta Siderweb, ha pubblicato alcuni estratti dal fascicolo sugli scenari di un’Ilva targata ArcelorMittal-Marcegaglia realizzato da Jp Morgan Chase & Co, in cui il colosso siderurgico tornerebbe a guadagnare come profitto lordo tra gli 1,3 e gli 1,5 miliardi di dollari all’anno. Per arrivarci, nota Siderweb, dovrebbe fare alcune forzature alle prescrizioni dell’Aia: la produzione annua sarebbe di 10 milioni di tonnellate, due in più dei limiti imposti dall’Aia. Anche gli arrivi di materia prima – il vero fronte su cui il colosso franco-indiano sarebbe competitivo, grazie al proprio potere negoziale – dovrebbero essere consistenti, fino a 16 milioni di tonnellate. Anche in questo caso si dovrebbe fare i conti con le prescrizioni dell’Aia per evitare gli spolverii. Tutte da verificare anche le ipotesi di ricavi, perché si baserebbero su un aumento dei prezzi tra i 15 e 25 euro la tonnellata. Secondo Jp Morgan Arcelor Mittal arriverebbe con quote variabili tra il 51% e il 70%, mentre la Marcegaglia avrebbe il 20 per cento. Un altro 10% andrebbe alla famiglia Amenduni. Secondo il quotidiano pugliese, tuttavia, la famiglia Riva potrebbe rimanere, con una quota di minoranza, anche per sfruttare possibili sinergie con la Riva Acciaio. Per la Marcegaglia, invece, partecipare all’impresa significherebbe avere forniture ad un prezzo calmierato per l’intera produzione. Oggi la società si rifornisce già da Arcelor Mittal, ma dal sito di Brema, che venderebbe i materiali a mercati più prossimi.
Bisognerà verificare se il piano sia realistico. Come nota Tosini di Siderweb, Arcelor Mittal ha, come la maggior parte dei produttori mondiali, un problema di sovracapacità. «Mi sembra difficile che possa produrre una quantità di acciaio tale da danneggiare i suoi stabilimenti in Belgio e soprattutto in Francia, dove dovrebbe vedersela con il governo francese. Francamente mi mette in ambasce la prospettiva di un’acquisizione da parte di Arcelor Mittal, perché l’impressione è che il suo interesse sia piuttosto quello di togliere di mezzo di un concorrente». «Se io dovessi scegliere – conclude Tosini – vedrei meglio Jindal, che non produce in Europa e ha il know how necessario. Anche se la scelta ideale sarebbe quella di un produttori coreano o brasiliano, gli unici altri due Paesi da cui potrebbero arrivare delle offerte».
Quello che finora ha reso interessante l’offerta di Jindal è l’ipotesi di utilizzare una tecnologia innovativa, basata sull’utilizzo del preridotto per alimentare l’impianto a caldo. Il preridotto è un materiale minerale composto per almeno l’85% di ferro, ottenuto attraverso un processo chimico. Per quanto sia stato usato soprattutto nei forni ad arco elettrico usati per gli acciai industriali, può essere utilizzato anche come sostituto del coke (o meglio, per diminuirne il consumo), nei processi a ciclo integrale, ossia quelli che prevono l’altoforno. Il grande vantaggio è che, come ha spiegato a l’Espresso Carlo Mapelli, professore di siderurgia al Politecnico di Milano, gli impianti di lavorazione funzionano a gas, e non a coke. «Per ogni tonnellata di acciaio prodotta a partire dal minerale, le emissioni di anidride carbonica sono inferiori almeno del 65 per cento. E vengono eliminate del tutto sostanze cancerogene come gli idrocarburi policiclici aromatici e il benzoadipirene». Un altro vantaggio è che il processo non rende necessari i depositi di coke all’area aperta come quelli tristemente noti di Taranto.
Il difetto principale di questa tecnologia è che per funzionare ha bisogno di grandi quantità di gas. Non un problema per Paesi come la Russia o per gli Stati Uniti spinti dallo shale gas. Ma un grande problema per l’Europa e per l’Italia, che ha costi del gas superiori del 30-40% rispetto alla media del Continente. Se negli Stati Uniti il prezzo per metro cubo di gas è di 10-12 centesimi, in Italia la media è di 35-40 centesimi.
A parlare per primo di introdurre un processo di preriduzione in Italia per un’area a caldo è stato per primo Enrico Bondi quando, da commissario straordinario dell’Ilva, prima della sostituzione con Piero Gnudi, elaborò il nuovo piano industriale per lo stabilimento di Taranto. Il piano è poi stato accantonato e non sembra essere considerato interessante da Arcelor Mittal, proprio per gli alti costi di approvvigionamento del gas e gli investimenti infrastrutturali che sarebbero necessari.
Mentre sembra allontanarsi l’ipotesi dell’uso del preridotto, sul fronte della tutela ambientale rimangono in piedi le prescrizioni previste dall’Aia. Ma sono sufficienti o tornerà l’eterna dicotomia di Taranto, che vede contrapposti lavoro e salute? Sulla possibilità che altoforno e ambiente siano compatibili è sicuro Rocco Palombella della Uilm. «Gli altiforni sono sempre stati compatibili con l’ambiente – dice -. Ci sono in Giappone, in Germania e in Lussemburgo impianti a ciclo integrale dall’impatto limitato. Ma devono avere interventi di manutenzione corretta».
(continua)