TaccolaServe ancora un acciaio italiano?

Serve ancora un acciaio italiano?

Ilva, Piombino, Terni: per le tre partite principali dell’acciaio italiano sono settimane decisive, ma tutte le situazioni partono tutte da macerie da salvare. Fabbriche storiche si svendono, tagli di personale si susseguono, ultimi in ordine di tempo le 550 lettere di mobilità spedite ad altrettanti operai della Ast ThyssenKrupp di Terni, alle istituzioni si chiedono ancore di salvezza sotto forma di ammortizzatori sociali e incentivi. Ma ha ancora senso che l’Italia investa nell’acciaio? C’è un beneficio reale per il sistema industriale? E che tipo di produzione va mantenuta e sviluppata? Abbiamo posto le domande a chi segue il settore da vicino.

Perché investire nell’acciaio in Italia?

Per parlare di acciaio in Italia, forse non guasta partire dall’Ebitda, o margine operativo lordo. Nel settore, spiega Gianfranco Tosini, direttore dell’ufficio studi della rivista online Siderweb, c’è un valore che viene considerato ideale: l’Ebitda in rapporto al fatturato deve essere attorno al 12 per cento. Oggi però in Europa i valori sono lontanissimi dall’obiettivo, per i maggiori costi di energia, personale e legati agli standard ambientali. A quel livello arrivano, invece, gli operatori nei Paesi emergenti, Cina, India e Brasile su tutti. Perché, dunque, un’azienda indiana come la Jindal o l’Arcelor Mittal, dovrebbe investire in Italia? Perché l’acciaio, sottolinea Tosini, non è un prodotto globale, ma in buona parte regionale. Per prodotti come l’acciaio del cemento armato la produzione all’estero e il trasporto all’altro capo del mondo non sono convenienti. Un secondo interesse di un produttore che venisse in Italia sarebbe quello di acquisire un concorrente. Nel caso dell’Arcelor Mittal, in particolare, l’acquisto di Ilva significherebbe togliere di mezzo il vero rivale in Europa. Un terzo motivo è che a un Ebitda soddisfacente si arrivi in maniera artificiale, con incentivi che permettano, ad esempio, di azzerare il gap tra il costo del gas pagato in Russia o negli Stati Uniti e quello presente in Italia. 

 

Perché l’Italia ha bisogno di produttori di acciaio?

Se c’è un punto su cui tutti, industriali, sindacati e analisti indipendenti sono d’accordo è che la capacità produttiva a livello mondiale è eccessiva. L’acciaio prodotto nei Paesi emergenti ha, inoltre, un costo minore di quello realizzato in Occidente. Per gli industriali italiani non sarebbe meglio, quindi, acquistare tutto all’estero? «In linea teorica sarebbe possibile» risponde Tosini. Ma, al di là dei costi del trasporto, i problemi sarebbero tre: la qualità del prodotto, che non è identica, i tempi di consegna («all’Ilva si possono chiedere prodotti con dieci giorni di anticipo, da un produttore indiano o cinese servirebbero realisticamente almeno 90 giorni») e i tempi di pagamento. Se all’Ilva gli industriali possono pagare a 180 giorni, argomenta Tosini, un fornitore estero richiederebbe con ogni probabilità pagamenti più ravvicinati. 

Che cosa ha senso produrre in Italia?

Visti i costi maggiori per energia, lavoro e standard ambientali, le imprese siderurgiche italiane dovrebbero, come in altri settori, diversificare la pruduzione e concentrarsi su beni a valore aggiunto maggiore. Nello specifico, il passaggio è dall’acciaio di massa agli acciai speciali. La sfida però non è da poco, continua Tosini, perché più un prodotto ha valore, più diventa di nicchia, e questo non consente di mantenere la quantità attuale. «La conseguenza di una tendenza di questo tipo è che qualcuno deve uscire dal mercato. Se due aziende fanno lo stesso prodotto, o si fondono o una delle due chiude», spiega il direttore dell’ufficio studi di Siderweb. «Qualcuno ha già fatto questo riposizionamento negli anni scorsi, e guarda caso è chi oggi sta meglio. Altri lo vogliono fare adesso, ma potrebbe essere tardi, perché sono necessari grandi investimenti e il periodo di mercato non è il migliore. Servirebbe che si unissero gruppi di 3-4 operatori per far fronte agli investimenti». A soffrire, oltre alle aziende note nelle cronache, ci sono molte piccole e medie imprese, dei distretti di Brescia, di Vicenza e di Udine. Una lettura che convince solo in parte Marco Bentivogli, segretario nazionale della FIm-Cisl per il settore siderurgico. «Il settore della siderurgia, come abbiamo detto la scorsa estate, si è scoperchiato. Ma i problemi delle aziende, a partire dalla ThyssenKrupp di Terni, non sono di mercato o di specializzazione della produzione. I problemi riguardano i costi dell’energia e delle materie prime, i crediti non sufficienti da parte delle banche e la mancanza di una certificazione dei prodotti che valorizzi i beni prodotti secondo certi standard, senza bisogno di porre dazi che finirebbero per essere controproducenti». 

Come produrre: forno elettrico o altoforno?

Quando si produce acciaio, l’alternativa è tra il ciclo integrale e il forno ad arco elettrico. Il ciclo integrale è stato dal XIX secolo lo standard nella produzione di acciaio di massa: le cokerie alimentano altiforni che permettono di fondere l’acciaio. La materia utilizzata è, appunto, il coke, assieme a strati di minerale e calcare. Questo sistema è sicuramente più inquinante, per l’emissione di gas nocivi e le polvere dei depositi di coke. L’incidenza di tumori e leucemie nel territorio di Taranto è un esempio evidente dei rischi ambientali e per la salute che può provocare un impianto di questo tipo. I vantaggi degli altiforni sono di due tipi: la qualità è considerata superiore, soprattutto per i prodotti piani, rispetto al forno ad arco elettrico. I costi della materia prima sono inferiori, almeno in un contesto come quello italiano. 

Il forno ad arco elettrico viene usato per produrre tutti gli acciai speciali e parte di quelli di massa. Il grande vantaggio è l’impatto ambientale relativamente limitato. Il suo limite è l’applicazione limitata per realizzare acciaio di massa, come quello che si produce all’Ilva di Taranto. Questo tipo di forno si alimenta tradizionalmente con il rottame. Da qualche anno si è diffuso anche l’uso, per l’alimentazione del forno, del pre-ridotto. Da uno studio di Siderweb è emerso che la quota di produzione prodotta tramite forno elettrico sta aumentando e che la tendenza è di una crescita ulteriore da qui al 2030. La produzione con questa tecnologia è assolutamente maggioritaria in India, Africa e Medio Oriente e Americhe, mentre in Cina la produzione di acciaio da forni elettrici dovrebbe raddoppiare entro il 2030, passando al 10 al 20 per cento del totale.  

 

Il preridotto è una soluzione?

In tempi recenti, anche nel dibattito italiano, si parla molto del preridotto come possibile soluzione per i problemi ambientali legati all’acciaio. Il preridotto è un materiale composto per almeno l’85% di ferro e trattato con un procedimento chimico. Può essere usato come sostituto del coke (o meglio, per diminuirne il consumo), nei processi a ciclo integrale. Il grande vantaggio è che, come ha spiegato a l’Espresso Carlo Mapelli, professore di siderurgia al Politecnico di Milano, gli impianti di lavorazione funzionano a gas, e non a coke. «Per ogni tonnellata di acciaio prodotta a partire dal minerale, le emissioni di anidride carbonica sono inferiori almeno del 65 per cento. E vengono eliminate del tutto sostanze cancerogene come gli idrocarburi policiclici aromatici e il benzoadipirene». Un altro vantaggio è che il processo non rende necessari i depositi di coke all’area aperta come quelli tristemente noti di Taranto. Finora si è però utilizzato soprattutto nei forni elettrici ad arco in sostituzione del rottame, rispetto al quale non presenta elementi chimici inquinanti (come rame, stagno etc.).  

Il difetto principale di questa tecnologia è che per funzionare ha bisogno di grandi quantità di gas. Non un problema per Paesi come la Russia o per gli Stati Uniti spinti dallo shale gas. Ma un grande problema per l’Europa e per l’Italia, che ha costi del gas superiori del 30-40% rispetto alla media del Continente. Se negli Stati Uniti il prezzo per metro cubo di gas è di 10-12 centesimi, in Italia la media è di 35-40 centesimi. 

A parlare per primo di introdurre un processo di preriduzione in Italia per un’area a caldo è stato per primo Enrico Bondi quando, da commissario straordinario dell’Ilva, prima della sostituzione con Piero Gnudi, elaborò il nuovo piano industriale per lo stabilimento di Taranto. Il piano è poi stato accantonato e non sembra essere considerato interessante da Arcelor Mittal, proprio per gli alti costi di approvvigionamento del gas. Su un’ipotesi di utilizzo del preridotto si è mosso l’altro pretendente – sebbene molto meno concreto – dell’Ilva, il gruppo indiano Jindal, che è specializzato in questa tecnologia, particolarmente sviluppata proprio in India. 

Quali incentivi?

Gli eventuali incentivi economici sul fronte energetico diventano cruciali per il futuro di tutte le partite aperte. Esemplare è il caso della Lucchini (in amministrazione straordinaria) di Piombino, dove il forno elettrico alimentato da preridotto potrà svilupparsi solo se il gas, necessario in quantità ingenti per il funzionamento degli impianti e la trasformazione del minerale, costerà meno di oggi. Parte dei risparmi si potrebbero ottenere agendo sulle forniture e rinegoziando i contratti attuali. Ma per colmare il gap tra i 35 centesimi di euro a metro cubi che in media pagano le aziende energivore italiane e i 12 centesimi richiesti a quelle statunitensi, arrivando magari a un valore di compromesso di 20 centesimi, sarà con ogni probabilità richiesto dalle aziende un intervento pubblico. I margini per agire sono però ristretti, perché la Ue potrebbe contestare l’esistenza di aiuti di Stato. 

Per quanto riguarda l’energia elettrica, nella contrattazione di Terni con la ThyssenKrupp (fallita, con le lettere di licenziamento spedite a 550 operai) sono stati ipotizzati due strumenti di “efficientamento a legislazione vigente”, come li ha definiti il Mise: l’interconnector e l’interrompibilità. 

Sono due strumenti non nuovissimi. L’interconnector è previsto dal 2009. In parole povere, si dà la possibilità alle aziende energivore di costruire nuove linee di interconnessione con l’estero, per potere acquistare energia alle tariffe estere, inferiori rispetto a quelle italiane. La norma prevede che fino al 2015 le imprese possano godere del meccanismo dell’import virtuale: possono cioè acquistare dall’estero a prezzi minori, come se le linee di interconnessione fossero state costruite. L’interrompibilità è uno strumento che esiste invece da molto prima. È la possibilità per le aziende di farsi pagare dal sistema, tramite aste mensili, se sono disposte a essere distaccate in caso di necessità, per motivi di sicurezza. Questa misura doveva scadere nel 2013 ma è stata prorogata per il 2014 e soggetta revisione nel decreto competitività dello scorso giugno. 

L’energia è stata cruciale anche per la firma del contratto di acquisto, siglato lo scorso 7 ottobre, della Ferriera di Servola (ex Lucchini) da parte di Siderurgica Triestina, controllata del gruppo Arvedi. Secondo la presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, «nell’ambito del ruolo propositivo svolto dai soggetti istituzionali, va evidenziato anche il ruolo del Gestore Servizi Energetici-Gse spa, che si è impegnato a recepire l’istanza di rescissione anticipata della convenzione CIP6 da parte di Elettra produzione srl, quale condizione fondamentale per la riuscita dell’operazione industriale». Nello specifico, aggiunge Il Piccolo di Trieste, «il pool degli istituti creditori di Elettra formato da cinque banche di cui tre estere con capofila il Banco di Bilbao ha dato il via libera all’accordo tra la centrale di cogenerazione e la stessa Siderurgica triestina: Elettra ritira i gas di risulta del processo produttivo della Ferriera a fronte della fornitura dopo la trasformazione del fabbisogno energetico dello stabilimento siderurgico». 

Un segnale da Trieste

Nel clima di sfiducia che ha caratterizzato il settore dell’acciaio nelle ultime settimane (a cui ha contribuito il fallimento della trattativa tra governo, sindacati e ThyssenKrupp per evitare il licenziamento di 550 operai del sito di Terni), la vicenda della Ferriera di Servola, in provincia di Trieste, si è conclusa positivamente. Si tratta di un complesso ultracentenario, un altro dei siti dismessi dalla Lucchini, acquistato da Siderurgica Triestina, controllata al 100% dal gruppo Arvedi.  Il prezzo di vendita non è stato reso noto, ma è stimato attorno ai 10 milioni di euro. Arvedi, ha spiegato Il Piccolo di Trieste, investirà nei prossimi due anni sul fronte ambientale 25 milioni di cui 15 per il risanamento degli impianti e 10 per la messa in sicurezza dei suoli. Dovrebbe però incassare 22 milioni che sono parte dei crediti vantati da Servola spa e garantiti dal bando di vendita. L’investimento complessivo previsto da qui al 2016 è di 172 milioni ai quali si aggiungeranno 41 milioni di soldi pubblici. L’accordo, aggiunge Il Piccolo, siglato con tutte le rappresentanze sindacali e approvato dall’assemblea dei lavoratori, «prevede in particolare, oltre al mantenimento dei livelli salariali, la riassunzione entro il 31 dicembre di 410 degli attuali 438 dipendenti con l’assorbimento dei rimanenti comunque entro la fine del 2016. Secondo il Piano industriale quando saranno a regime la produzione siderurgica, il nuovo laminatoio a freddo e la piattaforma logistica di intermodalità marittimo-ferroviaria l’occupazione potrà a salire fino a 660-680 dipendenti».

Il commissario straordinario per quest’area e per quella contigua dell’Ezit sarà la presidente della Regione Debora Serracchiani. Nel giro di pochi giorni, aggiunge il giornale triestino, «sarà rimesso in funzione l’altoforno dove i lavori di risanamento fatti da una ditta della Repubblica ceca e con l’ausilio di alcune decine di lavoratori richiamati dalla cassa integrazione sono conclusi». Rimane però un dubbio sulla compatibilità ambientale della cokeria, impianto avversato dai comitati cittadini e dagli ambientalisti, che potrebbe anche non rientrare nei parametri più severi che saranno fissati dalla nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia). La cokeria, conclude Il Piccolo, «sta funzionando a mezzo servizio rispetto al passato, ma comunque oltre non andrà perché comunque sia non dovrà più rifornire lo stabilimento di Piombino. Una delle ipotesi in campo è la sua futura totale dismissione».

Acciaio 2030

Un mercato ancora più concentrato a livello mondiale, sempre più sbilanciato verso l’Asia e con tecnologia piuttosto diversa rispetto a oggi. È lo scenario dell’evoluzione dell’acciaio delineato da un progetto di Siderweb dedicato al settore nel 2030. 

La geografia della produzione mondiale dell’acciaio è già stata rivoluzionata a partire dagli anni ’90, con uno spostamento rapido verso i Paesi emergenti, a partire da Cina, Brasile, Russia e India. La Cina, in particolare, nel 1995 produceva il 13% dell’acciaio mondiale, nel 2013 il 49 per cento, ossia 779 milioni di tonnellate, delle quali solo 47 destinate all’export. L’Unione europea e il Nord America hanno invece registrato un sensibile ridimensionamento. Oggi rappresentano il 18% della produzione mondiale, contro il 35% del 1995. Bassi costi energetici e dei salari e minori vincoli ambientali, nota Siderweb, hanno spostato l’offerta nei Paesi emergenti. La qualità, per quanto riguarda determinate produzioni di pregio, è ancora superiore nei Paesi occidentali, ma sarebbe sbagliato pensare che nei prossimi anni sarà mantenuta questa differenza qualitativa. 

Nel 2030, secondo le previsioni della rivista di settore, la quota dell’Ue scenderà al 9% della produzione mondiale e un altro 9% arriverà dall’Europa extra-Ue (compresa la Russia). La Cina si attesterà probabilmente al 51% della produzione mondiale, mentre i passi avanti più significativi arriveranno da Medio Oriente e Africa.

Fonte: Siderweb. Per guardare il grafico ingrandito, cliccare qui

Nel 2030 il mercato dell’acciaio sarà più concentrato di quello attuale. Oggi il primo produttore mondiale, Arcelor Mittal, ha il 6% della quota di mercato mondiale. Le prime 50 aziende coprono il 65% del fatturato mondiale, contro il 52% del 1995. Oggi invece le tre maggiori imprese minerarie mondiali posseggono il 78% dei giacimenti di minerale di ferro conosciuti e le maggiori cinque case automobilistiche assorbono il 60% del mercato. È attesa un’accelerazione della concentrazione della produzione, per questioni di razionalizzazione ed economie di scala, che perterà nel 2030 le prime 50 aziende a detenere almeno il 75% del mercato. Dei primi 50 produttori mondiali, nel 1995 quattro erano cinesi, oggi sono 27 e nel 2030 saranno almeno 30. Quelli europei e nordamericani saranno quattro. D’altra parte, già oggi sono solo cinque dei primi 50, mentre nel 1995 erano 22. La siderurgia europea, come dimostrano le cronache recenti, già oggi è controllata da operatori multinazionali che hanno i centri decisionali altrove.

Fonte: Siderweb. Per guardare il grafico ingrandito, cliccare qui 

Quanto alla tecnologia, è previsto uno spostamento progressivo verso l’utilizzo dei forni elettrici (meno inquinanti ma più energivori) rispetto al ciclo integrale con altoforni. Dal 30% odierno si dovrebbe passare al 40 per cento. Tutto dipenderà dalla Cina, che ha scelto di puntare invece sugli altoforni. È tuttavia prevedibile che passi dal 10 al 20% la sua quota di acciaio prodotto con forni elettrici, per ragioni legate ai costi degli impianti e di esercizio e alla versatilità che caratterizza questi impianti. Limiti potrebbero essere i costi dell’energia necessaria e quelli del rottame, destinati a crescere, se aumentasse la domanda, per i limiti quantitativi che lo caratterizzano. Una possibile soluzione è quella di utilizzare sempre più una miscela di preridotto e ghisa, attraverso il processo Corex o Finex.    

Fonte: Siderweb. Per guardare il grafico ingrandito, cliccare qui