Il dibattito sulla società statunitense Uber, che dal 2009 ha lanciato una app che offre un servizio di trasporto cittadino con autista, alternativo al servizio taxi, ormai dura da più di un anno. Nella sua formulazione classica, la app messa a punto da Uber permette ai consumatori di mettersi in contatto direttamente con i servizi di trasporto, venendo immediatamente informati sulla tariffa richiesta. Le proteste dei tassisti non si sono fatte attendere e sono state veementi, in alcuni casi anche violente. Ciò che più temono i tassisti è una liberalizzazione de facto del settore, cosa che avrebbe comportato, secondo loro, un significativo caduta nella quota del loro mercato.
La strategia di surge pricing di Uber, ovvero la discriminazione del prezzo in funzione della pressione esercitata dalla domanda su alcune tratte o in certi orari, potrebbe portare Uber ad drenare soltanto una parte della clientela interessata al servizio, intaccando quindi soltanto alcuni segmenti del mercato.
Il servizio di taxi tradizionale ha, infatti, un sistema di tariffazione fondamentalmente costante, determinato da una regolazione stringente, anche se non particolarmente efficace. Il servizio di Uber, invece, applica tariffe molto elevate in particolari momenti — famoso è ormai l’esempio dei 175$ per una corsa a New York il giorno dell’ultimo dell’anno, giusto per fare un esempio — o su alcuni tragitti in cui c’è una carenza di offerta.
In altre parole, se la pressione della domanda è tanto forte da non essere completamente soddisfatta dai taxi, allora i consumatori che saranno disposti a pagare di più si rivolgeranno ad Uber che, in questo caso, applicherà tariffe più alte. Un meccanismo del tutto simile si applica in caso di percorsi o di intere zone con una scarsa densità di taxi. Se così fosse, quindi, Uber aggiungerebbe semplicemente un’offerta sul mercato, senza modificare sostanzialmente i ricavi dei tassisti, visto che questi ultimi, data la loro politica di prezzi in generale più convenienti, resteranno sempre i preferiti da quasi tutte le fasce di consumatori.
Certo, Uber potrebbe anche decidere di offrire servizi di trasporto al di fuori dell’ora o del percorso di punta e al di sotto della tariffa standard del taxi, riuscendo così ad attirare decisamente più clienti e rischiando di lasciare ai tassisti una fetta di mercato residuale. Va detto, però, che in tal caso la domanda non sarà costante, ma probabilmente aumenterebbe, visto che nuovi consumatori, prima scoraggiati dal prezzo, potrebbero decidere di lasciare a casa la propria auto e rivolgersi al trasporto organizzato, in questo caso da Uber. E, visto che sarebbe estremamente improbabile che Uber riuscisse a soddisfare la domanda in aumento, neanche in questo caso, sarebbe ragionevole supporre una riduzione dei ricavi per i tassisti.
Se Uber riuscirà a smuovere le acque nel settore e, magari, innescando una sana concorrenza sui prezzi, ad indurre i taxi a ridurre le proprie tariffe (senza, come detto, ridurre i ricavi), allora potremmo ritrovarci nella situazione in cui un software sarà riuscito dove molti governi hanno fallito: favorire i consumatori, quelli che una volta avremmo chiamato la “maggioranza silenziosa”, senza andare ad intaccare i ricavi dei tassisti.
In un contesto di questo e almeno nel breve periodo, ipotizzare una variazione sensibile al ribasso delle licenze dei taxi non è verosimile. Ma in ogni caso, anche se fosse, è bene affermare il principio per cui gli eventuali costi di ingresso su un mercato non possono in alcun modo essere sostenuti dalla collettività. Il settore pubblico, in altri termini, non dovrebbe continuare a limitare i seppur deboli segnali di concorrenza sui servizi di trasporto delle persone, mentre potrebbe marginalmente ridurre eventuali canoni di concessione qualora la rendita da posizione si riducesse effettivamente.