Alla voce “persone perfettamente adattate al proprio ambiente” ci metterei Emily Gould e Brooklyn. Non tutta Brooklyn, ma quella fetta trentenne, spiantata e bianca, in via di riappacificazione con se stessa e di correzione delle lacune sociali che la hanno relegata a “poco etnicamente interessante” per troppo tempo, ormai. Gould appartiene al fronte tatuato prima che diventasse hipster, a chi vestiva vintage perché quando ha riempito il guardaroba le boutique di Williamsburg si chiamavano ancora mercatini dell’usato, a chi ha vissuto in affitto a Bushwick quando era veramente pericoloso e l’acqua era avvelenata dalle tubazioni. Ha l’aria di chi è arrivato un pelo prima e adesso non può credere a come stanno andando le cose. Me la ricordo confessare di come era riuscita a dilapidare un anticipo da duecentomila dollari per il suo primo libro, sapendo che nella vita non avrebbe mai più rivisto una cifra del genere tutta insieme. Poi fare le pulci alla società editoriale, dalle colonne di Gawker — «non mi ricordo niente, di quel periodo. Mi spiace» è il suo modo di svicolare la faccenda. Poi ancora mettere a nudo se stessa, il suo armadio e i suoi amori occasionali sul suo blog, Emily Magazine, esplorando quel genere di intimità che sarebbe finita in Girls, prima ancora che Lena Dunham fosse un’ombra sulla porta della notorietà. Dalla copertina del New York Times Magazine, la volta che ha deciso di confessarsi al mondo, fino alla completa reinvenzione di sé.
«Mi sono resa la vita difficile», mi ha detto qualche giorno fa, ridacchiando. Le chiedevo del suo primo romanzo, intitolato Friendship e uscito per Farrar, Straus & Giroux negli Stati Uniti — in Italia vedrà la luce a febbraio 2015, col titolo Due di noi per DeAgostini, all’interno di una nuova collana di narrativa chiamata Bookme — e di quanto fosse stato difficile tornare sui suoi passi dopo un esordio turbolento. «Non so se gli inizi sono stati disastrosi. Sicuramente io non ho fatto niente per renderli agevoli. Il mio primo impiego dopo il college è stato in una casa editrice, poi, quando ho cominciato a scrivere per Gawker di gossip editoriale mi sono alienata la maggior parte dei miei contatti. In realtà non credo che questo abbia influito sulle vendite del mio primo libro — And The Heart Says Wathever, una raccolta di saggi brillanti e lucidi che ha del miracoloso, ndr — ma i critici mi aspettavano con il coltello sguainato. Quando è uscito Friendship ho pensato che potesse essere giudicato per la sua qualità, più che per il mio background e la mia reputazione. Più o meno è andata così, a parte per un paio di riviste che proprio non riescono a farsi una ragione del fatto che per un anno, quando ne avevo venticinque, ho fatto la giornalista investigativa. È offensivo, ma tutto quello che posso fare è continuare a scrivere libri». La reputazione è un concetto soggettivo. Quando Emily si intrufolava alle feste dell’alta sfera editoriale, lo faceva con lo spirito dell’esploratore alla ricerca delle sorgenti del Nilo. Si vestiva con vestiti non suoi e parlava una lingua non sua, per tradurla nella massima trasparenza possibile e, inconsciamente, occupava l’avanguardia di un movimento. Era un’infiltrata ma non proveniva da nessuna parte, destinata a formare la propria professionalità partendo dall’estremo opposto di se stessa.
Ora sembra trovarsi agli antipodi di quello che è stata, immersa nella sua dimensione naturale e occupata giorno dopo giorno nella ricerca letteraria e nello sviluppo di un’idea diversa di editoria, tra il progetto Emily Books — un mini-editore e libreria online per abbonamento, che ogni mese propone un nuovo eBook, e ora è pronta per fare il primo libro cartaceo — e la narrativa, più vicina che mai a quello che io definirei indipendente: «Le cose, per me, si stanno mettendo a posto. Sono cresciuta, finalmente comincio a essere presa sul serio e ho smesso di sentirmi sempre in guerra. Posso dedicarmi alla scrittura senza essere continuamente preoccupata del feedback. Sono circondata da persone piene di talento e con Emily Books ho l’opportunità, persino l’obbligo, di trovare e amplificare nuove voci femminili».
Il passaggio alla narrativa, dopo il giornalismo e soprattutto l’auto-non-fiction del primo libro, non è qualcosa di così scontato e ancora una volta dimostra quanto il personaggio Gould si stia riadattando a un’esistenza più congeniale. And The Heart Says Whatever è un dipinto interiore e un’affermazione di appartenenza, Friendship è probabilmente un cambio di dimensione e l’accettazione di una crescita inevitabile. «Dopo l’uscita della mia raccolta di saggi ho avuto la sensazione di non poter scrivere in prima persona per un po’ di tempo. Ho cominciato a esercitarmi sulla terza persona e alla fine mi sono trovata con in mano un romanzo. Prima non riuscivo proprio a pensare a una mia forma narrativa, ma adesso ho preso la vena e voglio continuare». Quello che le succede intorno è che anche il mondo editoriale sta cambiando e la trova preparata, volontariamente o meno. Le dimensioni si stanno rimpicciolendo e adattando alle piccole imprese personali. Emily si fa trovare con le dita piene di parole, la testa piena di idee e la volontà di affrontare le opportunità una per una, man mano che si presentano. La fiducia nel futuro è quella di un’adolescente entusiasta ma rispetto ai primi tempi si è fatta forte di una consapevolezza diversa, che influenza la sua visione dell’industria, oltre che la sua sensibilità letteraria. «L’industria sta cambiando, magari non velocemente come vorremmo. Credo che gli editori tradizionali possano mantenere il loro ruolo e spero che riescano a farlo. Nel peggiore dei casi il futuro è una cosa in cui i buoni libri vengono pubblicati da un numero esagerato di piccole case editrici che pagano gli autori con anticipi molto piccoli, mentre i grandi gruppi pubblicheranno solo bestseller inattaccabili. La letteratura diventerà qualcosa che potranno permettersi solo le persone molto abbienti o alcuni masochisti, auto-flagellanti che siano disposti a sacrificare ogni altro aspetto della propria vita per potersi permettere il vizio di leggere. Sono convinta, per un sacco di motivi, che non andrà così, ma sono anche convinta che il seme di uno scenario apocalittico sia già stato piantato».
Più andiamo avanti a parlare più mi convinco che non c’è altro modo di vederla, per lo meno non da questa parte di New York. Gould ha tutto pronto per resistere a un cambiamento già in atto e ha anticipato i tempi cambiando se stessa. Ha imparato dal suo passato, anche se non le va di tornarci sopra e stoccato le risorse per il futuro, prendendo il meglio di quello che le è passato davanti. «Brooklyn è il mio posto. C’è chi non riesce a concentrarsi se non in campagna, lontano da tutto. Io devo avere un sacco di persone intorno, devo vedere la città cambiare continuamente, devo sentire la dinamicità scorrere». È difficile immaginarla altrove o in un’altra condizione, è difficile immaginarla mentre aspetta passivamente che le piombi addosso la fortuna. Non è difficile immaginare gli anni della sua formazione, non soltanto perché ne ha scritto di continuo ma anche perché sembra logico che un cambiamento debba essere radicale per essere veramente efficace e che, dopotutto, nessuno finisce poi tanto distante da dove ha cominciato.