Uno dei problemi è l’ossessione identitaria. Scontri di culture, visioni del mondo diverse. Un altro è la difficile situazione economica del mondo occidentale, la strumentalizzazione dei media, quella della politica. Non è semplice capire da dove scaturisca la violenza e come venga incanalata. Marco Aime, antropologo e professore all’Università di Genova, ci va cauto. Il quadro è complesso, va osservato con cura.
Partirei dagli episodi anche recenti di scontri tra italiani e cittadini stranieri.
Sì, ma dico subito una cosa: è dura dire che si tratti di un fenomeno culturale. Le cause alla base – mi riferisco ai recenti episodi di Tor Sapienza – sono molto spesso di natura economica, sociale. È molto semplice: scontri tra precari, cassaintegrati, persone che hanno perso il lavoro contro quelli che, secondo loro, sono il principale concorrente, cioè gli immigrati. Dietro a tutto questo ci sono anche strumentalizzazioni politiche di gruppi ben precisi che hanno tutto l’interesse a fomentare questa violenza.
Politica e crisi, certo. Ma non intervengono, anche considerando casi diversi, fattori culturali?
Lo scontro in sé non è quasi mai culturale, nel senso che non avviene mai per la cultura. Sono altre, le cause all’origine. Anzi: più si conosce una cultura diversa, e meno si hanno pregiudizi (o almeno, così dovrebbe andare).
Ci son anche episodi di violenza che provengono dagli stranieri.
Anche qui, è più che altro un fatto statistico. In tutte le società esistono persone che delinquono, e gli episodi di violenza sono condannati in tutte le culture e in tutte le società dell’uomo. Pensiamo allo stupro. Non esiste cultura che lo ammetta. Di fronte a questi episodi bisogna sempre procedere con cautela: evitare la retorica razzista/xenofoba, in primo luogo, e poi evitare la trappola buonista dello “straniero vittima”. Ci sono delinquenti, come in ogni società. Poi si può dire che esistono fenomeni più complessi. Ad esempio, per alcuni tipi di reati, come lo spaccio, la presenza degli immigrati è funzionale agli interessi della malavita già consolidata nel territorio, che alimenta l’illegalità. Ma starei attento a farne una questione di culture. Sono altri i casi.
Ad esempio?
Può esserci esercizio di violenza legato a convinzioni culturali, come il padre musulmano che impone il velo alla figlia, impedendole di scegliere. Ma è un altro tipo. Per il resto, ogni società società deve affrontare il problema e ogni società elabora forme diverse per incanalarla. In Africa, ad esempio, alcune popolazioni prevedono i cosiddetti “legami scherzosi”. Sono legami tra membri di gruppi diversi: quando si incontrano la differenza viene giocata sul piano dell’insulto, più che altro “scherzoso”. I due si attaccano, per poi concludere l’incontro in modo amichevole. È un modo per ricordare che sono diversi, ma l’aggressività viene risolta nell’umorismo, che la depotenzia. Oppure in Nuova Guinea vengono inscenate finte battaglie tra etnie diverse. Un fenomeno antico, che ritroviamo nell’Antica Roma, ad esempio, o in Grecia. Questi sono modi per distendere il potenziale di violenza nei rapporti umani. In Italia, per quanto ne so io, il livello di violenza è diminuito, almeno rispetto agli anni ’70. Eppure – e sarà un trucco giornalistico – sembra che sia cresciuto molto. Conta molto la percezione.
Perché, anche quando si parla di violenza, ci si focalizza sempre su questioni culturali, allora?
Perché c’è una ossessione identitaria. La si vede manifestarsi in diversi modi. Direi che deriva da un vuoto ideologico recente, successivo alla caduta del Muro di Berlino. Quegli aspetti della vita e del pensiero che erano regolati dall’ideologia hanno dovuto trovare un altro sistema di riferimento. Alcuni gruppi hanno giocato, in modo più o meno guidato, quella dell’etnicità.
Perché proprio quella?
Diciamo che quella della razza non potevano più giocarsela. Per vari motivi, tra cui il fatto che la scienza ha dimostrato, in modo definitivo, che non si può parlare di razze umane. Un’altra opzione era quella religiosa, ma in un Occidente laicizzato come il nostro era poco praticabile. Però, come vede, ha preso piede in altre zone del mondo. L’accento sull’etnicità è poi coinciso con un aumento dei flussi migratori, che ha alimentato la paura dell’altro, e con la crisi economica: un disagio forte (a nessuno piace stare peggio). Tutto è comunque partito da un vuoto ideologico. E le conseguenze sono tante, e non solo le rivendicazioni autonomiste – ormai meno forti – di gruppi come la Lega
Quali?
La sconfitta della retorica dell’integrazione, prima di tutto. In particolare gli stranieri di seconda generazione, che non riescono a sentirsi cittadini come gli altri. Alcuni hanno aderito a frangie estremiste religiose, altri sono partiti per militare nell’Isis. Sono episodi, ma anche segnali di un fallimento. La nostra società, che noi ci ostiniamo a credere la migliore possibile, forse non è più così appetibile come un tempo. I disagi erano scoppiati già nel 2008, con gli scontri nelle banlieues parigine. La Francia si era sempre vantata di essere un modello di integrazione, e non era così.
Alla base c’erano anche questioni economiche.
Certo. È uno scontro tra diverse forme di povertà. Ma non è un caso, perché se seguiamo il filo delle cause, torniamo sempre lì: dopo la caduta del Muro, il modello unico che si è imposto è quello del mercato. In questo contesto il consumatore prevale sul cittadino. Esistono ospedali di seconda categoria, per i più poveri, e scuole di primo livello, inaccessibili a certe fasce sociali. Le differenze sono fortissime. A questo scenario aggiungiamo lo straniero, che è molto attento al consumo come forma di crescita sociale, come segno di riscossa. Le marche, il lusso sono la prova che ce l’ha fatta. Ma il problema è il consumo non porta, come conseguenza, i diritti. Essersi arricchito non significa che si è integrato. E dall’altra parte ci sono quelli che si sentono italiani. Una situazione esplosiva, che può risolversi solo con un utilizzo intelligente dell’istruzione, della scuola. Che è poi l’unico luogo in cui vengono creati i nuovi cittadini.