L’enoteca sale sul camioncino

L’enoteca sale sul camioncino

Se pensate che lo Street Food sia la moda più gustosa (quasi sempre) del momento, sappiate che la massima espressione è il Food Truck. Traduciamo per i nesci: si parte da un furgone, un vecchio pulmino Volkswagen, un’ape, un rimorchio, un carretto che dir si voglia. Lo si allestisce con frigo, vetrine, macchina del caffè, piastra, cappa, friggitrice, salamandra o pozzetti per il gelato. Si passa alla rifinitura e personalizzazione sulla carrozzeria: modificandola, verniciandola o applicando tanti adesivi secondo il layout grafico più adatto al marchio. Ecco pronto un food truck, veicolo speciale per il cibo da strada. Preparando dagli aperitivi al dessert, gli chef itineranti – perfetti sconosciuti o titolati – scendono in strada con i loro menù. Cibo poco costoso, etnico o tradizionale, sempre più gourmant. Un fenomeno che, all’ora della pausa pranzo o dello snack pomeridiano, spopola nel mondo: New York, lo sanno tutti, è una delle capitali dove si trova tutto, ma proprio tutto, di ogni cucina mondiale. Adesso dilaga anche in Italia.

È un successo di pubblico – vedi la seconda edizione di Streeat Food Festival a Milano o la prima di Artisti dello Street Food, ospitata nel realais tre stelle dei Cerea a Brusaporto, entrambe svoltesi in settembre – e di numeri: la torinese Vs veicoli speciali, leader nell’allestimento di negozi ambulanti, in due anni ha raddoppiato il fatturato. E prevede una crescita significativa del 50% anche per quello in corso.

Quanto agli chef, sono scesi on the road perfino gli stellati: Mario Uliassi con la Uliassi Street Good gang prepara nella sua cucina mobile il già mitico panino di porchetta con porchetta oltre ad ali di pollo piccanti e dolci, trippa del canaparo, spuma di tiramisu su a 6 euro. L’Ape Romeo di Cristina Bowerman propone a Roma, in zona Prati, pizza e mortadella artigianale, ciabattina con coppa di testa cotta, panino di pastrami. Martini e Aperol sono in strada a Milano per gli aperitivi, con tanto di postazione dj. Ancora nella Capitale imperversa Pizza e Mortazza (il mezzo è rosa a pois) e Mozao (tigelle e gnocco fritto). L’Ape Scottadito fa tappa ad Ascoli Piceno, la Toraia a Firenze è specializzata in hamburger di chianina, mentre un pulmino Wolksvagen del ’67 è la location vintage di Farinel on the road, per miasse e panini ruspanti.

Ma le storie più belle sono quelle di chi “svolta” creandosi il proprio food truck. E Linkiesta ne ha trovata una, davvero curiosa, anche perché si tratta di un wine truck, uno dei primissimi in Italia. La svolta è quella di due professionisti di 34 anni Edoardo Piva (prima imprenditore, ora gestore patrimoniale) e Filippo Torsello (avvocato pentito) che partendo da un vecchio carrello ne hanno fatto un caràvin – chapeau per il nome – che ha debuttato allo Streeat Food Festival di Milano. Dopo un mare di ore lavorative («Ma che soddisfazione vedere che il progetto, realizzato interamente con le nostre mani, ha lasciato tutti entusiasti» dice Torsello) e altrettante per seguire la parte organizzativa. «Tra le varie difficoltà da affrontare, lo spazio d’interpretazione normativa è certamente l’elemento più critico» sottolinea Piva. L’idea del vino, figlia della passione di entrambi, è stata perseguita con una precisa filosofia: il Caràvin vuole promuovere la cultura eroica dando spazio ai giovani. Nella wine list – che cambia mensilmente – ci sono le etichette di produttori under 35 che sono partiti da zero o stanno seguendo le orme di famiglia: Fiol, Corte Fusia, Qu Ale, San Leornardo…

La domanda inevitabile: i costi di avviamento? «Le aziende che “customizzano” i mezzi chiedono cifre esorbitanti che vanno dai 30.000 euro in su a seconda delle dotazioni – racconta Torsello -. Abbiamo aggirato il problema progettando e allestendo Caràvin, da soli e senza fretta. Gli altri costi sono obbligatori per legge ma in realtà non sono il peggio. È la burocrazia imponente che porta spesso a scoraggiarti dal concludere l’opera». Aggiunge Piva: «Spesso viene sottovalutato un aspetto nell’impresa: l’elevata spesa per il mezzo finisce per distrarre risorse altrimenti disponibili per la qualità dei prodotti e per convincere molti a vendere male per recuperare l’investimento iniziale. Ma questo non è street food moderno. Non a caso, il nostro obiettivo è concentrarci solo su eventi nei quali la cultura del buon vino possa trovare punti di incontro e di riscontro con elementi dello stesso livello». C’è un altro punto debole – si fa per dire – del Caràvin: i consumi non di vino, ma di carburante. Il carrello è trainato da un vecchio Chevrolet che dà il tocco in più e funge anche da magazzino. «Anche qui è stata una questione di budget, utilizzando ciò che avevamo in casa ma stiamo ragionando su un auto, comunque vintage ma dall’anima ecologica che ben si sposa al nostro concetto di vino! dicono i due ideatori del wine truck. Prosit.

X