L’era dell’auto-produzione

L’era dell’auto-produzione

Abbiamo passato decenni ad affrancarci dal lavoro manuale e dalla produzione, a rimuovere dal nostro dna ogni traccia dei calli alle dita dei nostri genitori o dei nostri nonni. Abbiamo studiato in scuole senza laboratori e in università che ci promettevano solennemente che il nostro destino era una scrivania. Abbiamo ottenuto il diploma di finanziatori, ideatori e consumatori, lasciando ad altri il fastidioso orpello della produzione, cui sovente imponevamo condizioni lavorative che nemmeno i nostri quadrisavoli dell’ottocento. Abbiamo deciso che le ideologie erano noiose, la partecipazione logorante, la discussione sterile. Così ci siamo affidati a dei leader politici con una biografia abbastanza coerente con il nostro ideale per poterci fidare di loro incondizionatamente. Abbiamo vissuto questa sbornia sopra i nostri mezzi, convinti che il nostro cervello ci avrebbe portato ovunque e che le nostri mani sarebbero servite solo a far strisciare la carta di credito nell’apposita fessura. 

Poi, qualcosa è cominciato a cambiare. Laureati in filosofia che si mettono a lavorare al tornio. Famiglie che si costruiscono da sole la casa. Genitori che decidono di far da maestri ai loro figli. Pensionati che si reinventano agronomi o apicoltori grazie ai tutorial di You Tube.  Creditori e debitori che si prestano i soldi senza passare dalle banche, attaverso piattaforme online. Telespettatori che creano i programmi televisivi che vorrebbero vedere e li diffondono online. Cittadini che decidono di aggregarsi e fondare un nuovo partito, senza nomenclatura e sovrastrutture organizzative.

C’entra internet, indubbiamente. C’entra la crisi, che, come tutti i processi di distruzione, produce nuove edificazioni. C’entra, forse, pure la consapevolezza che quei paesi cui abbiamo lasciato in mano il pallino della produzione stanno volando, a differenza nostra. 

Probabilmente, però, c’è anche qualcosa di innato, in tutto questo. Come se fosse in atto una ribellione della nostra natura ancestrale, quella di homo faber, per dirla con Handke. Come se qualcuno ci stesse dicendo, a noi occidentali col cervello grosso, la schiena curva e il portafogli (sempre più) vuoto, che la strada che stavamo percorrendo è senza uscita. Che solo produrre, per dirla con le parole di Stefano Micelli, ci permetterà di tornare proprietari di noi stessi. Oppure, per dirla col dissacrante cinismo di Davide Colombo del collettivo milanese del deboscio, che stiamo facendo tutto questo «per estetica, per velleità, per definirci socialmente». Qualunque sia la risposta, ci sta tornando la voglia di non delegare al mercato, né tantomeno allo stato. Di fare da noi. Di produrre. E questa, a suo modo, è già una notizia.

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