Quando lo hanno scoperto, i tre ricercatori americani Daniel Mochon, Michael Norton e Dan Ariely, erano piuttosto sorpresi. Al termine di una serie di esperimenti era emerso che «la fatica sopportata per portare a termine un compito accrescesse in modo esagerato la stima per i risultati raggiunti». In altre parole, quando le persone costruiscono qualcosa con le proprie mani tendono, alla fine, a sopravvalutare il valore delle proprie creazioni, anche in termini monetari. Lo hanno chiamato “effetto Ikea”: un po’ perché nella ricerca sono stati utilizzati mobili dell’Ikea, un po’ perché è proprio su questo principio che si basa, in parte, il modello di business dell’azienda svedese.
Come scrivono nel loro studio (pubblicato qui) del 2011, diventato ormai celebre, l’Ikea «chiede al cliente di farsi carico di parte del processo produttivo»con l’assemblaggio finale del mobile. La cosa «dovrebbe diminuire la disponibilità al pagamento, una volta che il cliente sottrae la sua fatica al risultato finale». Invece «accade l’esatto opposto». Le persone sono disposte a pagare per essere coinvolte nel processo. Ma con alcuni limiti: «l’operazione non deve essere né troppo facile né troppo difficile». Come hanno dimostrato ulteriori esperimenti, l’effetto Ikea non sussiste quando il cliente, frustrato per la difficoltà del compito, non riesce a portare a termine il lavoro.
Come riconoscono i tre studiosi, l’effetto Ikea è, con ogni probabilità, una delle spiegazioni del successo ottenuto dall’azienda. A chi monta i suoi mobili Ikea fornisce istruzioni molto chiare, in grado di venire eseguite da tutti, mentre il compito da svolgere è impegnativo a un livello sufficiente per gratificare l’acquirente. Più complicato, invece, è capire perché Ikea abbia deciso di affidare ai suoi clienti l’operazione di assemblaggio dei suoi mobili. «Non so bene quali siano le logiche originali alla base del business model dell’Ikea», spiega Daniel Mochon a Linkiesta. «Sospetto che siano, più che altro, tattiche per il contenimento dei costi».
Secondo la ricostruzione presentata dall’azienda presentata da Sara Kristofferson, autrice di Design by Ikea, a Cultural History, invece, l’idea sarebbe nata per caso, negli anni ’50, grazie all’intuizione di uno dei membri dello staff. Un cliente non riusciva, a causa delle dimensioni eccessive, a caricare un tavolo sull’auto. Fu l’idea di un commesso a risolvere tutto: tolse le gambe al tavolo e trasformò il ripiano in un’asse, che entrava senza problemi. La trovata fu così geniale che venne assunta nel processo produttivo.
Per la Kristofferson, però, non sarebbe andata proprio così. Il primo a inventare mobili da smontare e spedire via posta fu un francese, Jean Prouvé, negli anni ’30. Era un progetto per fornire arredamento a basso costo per ospedali e scuole. Dieci anni dopo l’idea arriva anche in Svezia, con la Nk, che inventa il sistema Triva Bygg, che permetteva ai clienti di costruirsi i mobili con l’aiuto di istruzioni e di un cacciavite. Fu subito vista come una rivoluzione, e fu così, ma solo per l’Ikea, che ebbe l’abilità di coglierla al volo e di trasformarla in un grande business. Lo stesso fondatore, Ingvar Kamprad, nel 2008 ammetterà, andando contro la narrativa ufficiale, che l’idea non fu davvero farina del suo sacco. O meglio, che c’erano stati predecessori, nessuno però in grado di vedere il potenziale produttivo della novità.
“Lo spreco di risorse è un peccato mortale all’Ikea”
La storia ufficiale è comunque ben congegnata. Riflette alcuni dei mantra della cultura aziendale della società, predicati da sempre da Kamprad. L’umiltà (anche un membro dello staff può avere l’idea giusta), la collaborazione, l’assenza di gerarchie (o meglio: l’assenza di una particolare rappresentazione della gerarchia) e soprattutto la capacità di risolvere i problemi con soluzioni innovative pensando in modo diverso dagli altri. Nel suo libro del 1976, Testamento di un venditore di mobili, Kamprad illustra, con un decalogo, tutte queste regole elencate sopra. Tra queste c’è n’è una significativa: “lo spreco di risorse è un peccato mortale all’Ikea”, che illustra la sua insistenza sulla frugalità e sul contenimento dei costi.
È proprio la parsimonia che permette di comprendere, in profondità, l’idea alla base dell’Ikea, dell’etica di Kamprad e infine del suo processo produttivo. Secondo Tony Blackshaw, professore della Sheffield Hallam University, il fatto che Ikea venda mobili da assemblare rifletterebbe, alla base, l’etica luterana del lavoro. Sarebbe, ai suoi occhi, un nuovo modello globale. La “Ikeizzazione” del mondo, contrapposta all’egemonia del McDonald’s, si baserebbe su un “capitalismo pulito”, composto «dall’enfasi per la casa, dall’approccio democratico del “qualcosa per tutti”, da elementi di imprevedibilità in contrapposizione alla prevedibilità totale di McDonald’s, da un approccio semplice al cliente e da un riflesso dell’etica protestante per il lavoro che si estrinseca dei pacchi piatti e nell’auto-assemblaggio. Infine da una buona dose di eleganza». Come si è visto, però, l’idea dell’auto-assemblaggio, cioè la base dell’effetto Ikea, non è made in Ikea. È stata incorporata subito e, anzi, portata ai massimi termini. Definirla un riflesso dell’etica luterana è, per usare le parole di Mochon a Linkiesta, «affascinante». Va, in ogni caso, dimostrato. E qui arrivano i problemi.
“Chi non lavora non potrà nemmeno mangiare”
Prima di tutto, serve capire di cosa si parla quando si parla di etica luterana. Steven J. Overman, nel suo libro L’Etica protestante e lo spirito dello sport lo descrive in questo modo: «Una forma di attività regolare e assidua. Contrapposta alla visione cattolica delle “opere di bene” per compensare i peccati, l’etica del lavoro protestante non chiedeva poche azioni meritevoli ma una vita di fatica al servizio di Dio». Il punto centrale è sintetizzato in un passaggio della Seconda Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi: “Chi non lavora non potrà nemmeno mangiare”, mantra che sarà ripetuto – ed è significativo – nel 1988, dalla puritana Margareth Thatcher, in un suo discorso.
Secondo passaggio: si può applicare questo discorso anche all’Ikea? Non è semplice. L’universo Ikea è grande e complesso: tanto per cominciare, l’azienda, che fattura 29 miliardi all’anno, e dà lavoro a 151mila collaboratori, è presente in 46 Paesi, per un totale di 364 negozi. Se si fa la somma dello spazio espositivo di tutti gli store Ikea si ottengono 10,5 milioni di metri quadrati, un’area pari (quasi) all’Abruzzo. Il suo catalogo arriva a stampare 212 milioni di copie, per mostrare un totale di 9.500 prodotti in vendita. Insomma: è una multinazionale, e la sua grande diffusione implica una diversificazione molto attenta per ogni Paese in cui opera. «Siamo diventati un’azienda globale prima che esistesse la globalizzazione», dice nel 2003 l’ex Ceo della società Anders Dahlvig. «Abbiamo imparato come si entra in mercati molto diversi», cioè adattandosi a leggi, usi e costumi locali. Anche ad aspettative diverse: per l’Italia, Ikea è un negozio economico. Per la Russia, esclusivo.
Nella propria auto-rappresentazione, però, sono rimasti alcuni punti fissi: «Nei negozi normali, c’è qualcuno che ti serve, qui fai tutto da solo; i nostri concorrenti si rivolgono agli adulti, noi ci rivolgiamo ai giovani; i prodotti degli altri sono scuri e tradizionali, i nostri sono chiari e semplici con un tocco scandinavo. Negli altri negozi i prodotti sono pronti, già assemblati, e costano di più. Qui vengono assemblati dai clienti», continua Dahlvig.
L’abitante delle Småland è laborioso, ingegnoso e molto parsimonioso
Di tutti questi, il “tocco scandinavo” è senza dubbio uno degli elementi principali e merita una certa attenzione. Ikea ha fatto della sua “svedesità” un punto di forza. C’è tutto un immaginario che ruota intorno a questo concetto: le case immerse nella natura (perché, si sa, gli svedesi amano la natura selvaggia del nord); il design semplice ma pulito; i prezzi bassi e accessibili a tutti (l’arredamento “democratico”, riflesso della cultura del welfare scandinavo); le polpette. C’è anche, nel Corporate Cultural Centre Ikea, a Älmhult, un percorso culturale per conoscere il mondo e la vita delle Småland, la regione di provenienza di Kamprad. È importante: il virtuoso abitante di quella zona, ricorda Kamprad nelle sue interviste, incarna lo stereotipo del tipico lavoratore indefesso, vicino alla natura, ingegnoso e, soprattutto, molto attento al denaro. «Gli abitanti delle Småland sono gli scozzesi di Svezia», dice. Lo spirito della regione, attraverso uno dei suoi abitanti più illustri, viene travasato nell’azienda, fino a diventarne l’etica.
Kamprad impersona questo ruolo alla perfezione. Su di lui circolano vari aneddoti sul tema: pur essendo uno degli uomini più ricchi del mondo, quando viaggia, non va mai in hotel di lusso; usa sempre i mezzi pubblici; guida una vecchia auto popolare, acquista solo ai mercatini, la sera, quando può tirare sul prezzo; odia gli sprechi. Le matite Ikea (piccole e senza lacca) nascerebbero proprio dalla sua volontà di risparmiare. È il ritratto dell’abitante delle Småland, da come emerge nella coscienza popolare del Paese. Il prototipo si trova nella letteratura per ragazzi di inizio novecento. È il padre di Emil i Lönnebberga, personaggio di Astrid Lindgren (autrice di Pippi Calzelunghe): nei suoi romanzi è descritto come laborioso, ingegnoso, tirchio fino all’osso e – guarda un po’ – molto religioso. La Chiesa e il pastore erano, all’inizio del ’900, un punto di riferimento fondamentale per la vita delle piccole comunità svedesi.
A questo punto, sembra quasi naturale aggiungere, nel quadro, anche l’impronta luterana nella visione del lavoro. Lo stesso Kamprad, nel suo Testamento, utilizza toni biblici (la stessa parola testamento, del resto, ne è una prova), parlando di “peccato mortale”, di “gratitudine per chi svolge lavori oscuri”, di “prontezza ad aiutare sempre gli altri”, di“umiltà” e di una certa forma di consapevolezza “solo chi dorme non commette errori”. Nell’azienda il testo è noto come “testimonianza sacra”, scrive Sara Kristofferson. Tutto si terrebbe: lo spirito religioso che permeava la vita quotidiana nelle Småland sopravvive nella mentalità di Kamprad, estremo risparmiatore, che lo trasferisce alla sua azienda. Il lavoro e la fatica vengono condivisi con il cliente, che assemblando i propri mobili, partecipa al progetto ideale di un mondo migliore. Il tutto, mangiando polpette e ammirando i prati della campagna svedese. Sarebbe perfetto. Se non fosse per un problema.
Il tocco scandinavo, l’anima svedese di Ikea non sono un tratto originario
Il problema è che il “tocco scandinavo” di Ikea, o la sua “svedesità”, come la chiama Sara Kristofferson, non è un tratto originario dell’azienda. Anzi. Fino al 1961 “Ikea” veniva scritto “Ikéa”, alla francese, e i mobili avevano nomi che suonavano francesi, italiani e statunitensi: “Lido”, “Capri”, “Milano”, “Antoinette” e “Texas”. Con l’apertura all’estero, cioè negli anni ’70, l’azienda ha dovuto compiere un notevole lavoro di re-branding, inventandosi quel carattere “svedese” distintivo di cui si è parlato sopra. Lo stesso vale anche per Kamprad: oggi gira per mercatini e guida auto scassate, ma esistono immagini che lo ritraggono vestito con tradizionale giacca e cravatta e che guida una Mercedes. Questo non significa che adesso non vada davvero in alberghi economici e non prenda mezzi pubblici, al contrario. Significa però, come sottolinea Kristofferson, che non è (solo) una espressione della sua personalità. È, piuttosto, una necessità di aderire alla narrazione che Ikea ha creato intorno a sé. In altre parole, è il suo lavoro.
Anche l’immaginario sulla Svezia, saccheggiato dall’Ikea, fatto di paesaggi malinconici e naturali, è una costruzione culturale recente. Il famoso amore per la natura degli svedesi è stato introdotto dall’attivismo della Società Turistica Svedese nel 1885. Con il motto “Visitate il vostro Paese” invitava tutti gli abitanti a scoprire le bellezze naturali della Svezia. A questo seguì l’organizzazione di gite scolastiche obbligatorie nelle campagne per i bambini, educati fin da subito ad amare la natura. Il contributo dei romanzi della Lindgren, poi, fu notevole: si fissarono gli stereotipi sugli abitanti dei villaggi, che divennero buoni lavoratori attenti al risparmio. È un fatto notevole, anche perché fino a poco tempo prima, ricorda Olle Larsson citato da Kristofferson, i contadini delle Småland erano considerati “inaffidabili” e “disonesti”. Per quanto riguarda le loro case, che nella narrazione dell’Ikea costituiscono un esempio di semplicità e armonia, in origine erano “disordinate”: molti non erano in grado di disporre i mobili in modo razionale. Ci volle un intervento del governo, che istituì una campagna, nell’ambito delle sue politiche sociali, per educare le classi meno agiate all’arredamento e creare mobili semplici e a costi raggiungibili.
Questo non significa che ciò che racconta Ikea sia falso, che i principi su cui Kamprad ha costruito la sua idea di azienda siano infondati. Non vuol dire che sia tutta (si perdoni il gioco) una montatura. Vuol dire soltanto che la narrazione su di sé ha colto alcuni elementi e li ha messi in luce. Ora Ikea è più svedese della Svezia, ed è percepita come tale dagli svedesi stessi. Stabilire se una scelta produttiva distintiva e determinante come quella di affidare ai clienti l’assemblaggio del prodotto finale derivi da una particolare educazione religiosa, però, è impegnativo. Non può non passare attraverso l’idea che l’Ikea ha voluto dare di sé, cioè la sua narrazione, e non può non restare impigliata dentro. Andare a indagare l’educazione di Kamprad può portare fino a un certo punto, così come studiare le sue simpatie naziste giovanili, o le sue idee di mercato originarie.
Quello che si sa è che, pur essendo di origine tedesca, è cresciuto in un ambiente svedese, dai tratti stereotipati in cambiamento. Che la Chiesa in quelle regioni svolge un ruolo importante, e non si può non tenerne conto. La sensazione, però è che sia difficile inseguire la storia delle idee. Cambiano aspetto molto in fretta. Si può supporre che, quello che, in un immaginario lontano era legato alla quotidianità religiosa, ora sopravviva in altre forme. Che lo spirito di sacrificio del mondo luterano non sia scomparso. Così come non sia scomparsa la sensazione di felicità che dona la grazia di Dio a chi, tutti i giorni, si sobbarca la fatica di portare a termine i propri compiti. Questo esiste ancora. Solo, si chiama in un altro modo. Si chiama “effetto Ikea”.
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